Un’odissea durata quasi 35 anni quella vissuta da Gian Piero Buscaglia, 63 anni, ex dipendente del Ministero degli Interni. Una storia fatta di minacce, vessazioni, due arresti, un licenziamento e una famiglia andata in frantumi. Una vicenda dai contorni talmente oscuri, da aver interessato addirittura il parlamento, con una interrogazione parlamentare presentata dagli esponenti radicali Donatella Poretti e Marco Perduca e un’interrogazione al parlamento europeo presentata dall’eurodeputato Olivier Dupuis.
Nello scorso mese di settembre, il tribunale di Torino ha condannato l’avvocato torinese Simone Bisacca, ex legale di Buscaglia, al pagamento di un risarcimento danni di circa 170 mila euro (provvederà l’assicurazione Unipol Sai), per la tardiva presentazione del ricorso contro il licenziamento del 63enne imperiese, avvenuto nel settembre 2002.
Per Buscaglia una parziale rivincita, dal punto di vista giuridico, ma anche dal punto di vista sociale. ImperiaPost lo ha incontrato.
La storia di Buscaglia inizia nell’81, quando diventa dipendente amministrativo nella Polizia di Stato di Imperia.
“Ero in servizio alla Questura di Imperia, presso l’Ufficio licenze, quando venni a conoscenza di alcune presunte irregolarità relative al trasporto di armi ed esplosivi. Decisi così di informare i miei superiori, e da quel momento iniziarono tutti i miei problemi.
In quegli anni fui oggetto di minacce e vessazioni, abbandonato da tutti, sindacati e dirigenti di Polizia. Per questo chiesi il trasferimento presso la Questura di Alessandria. Nel frattempo a seguito di appena quattro giorni di malattia, iniziai ad essere sottoposto ad una lunga serie di perizie psichiatriche, assolutamente senza un valido motivo. Alla fine in totale saranno dodici, al termine delle quali risulterò sempre idoneo all’attività lavorativa. In una sola occasione non risultai idoneo, quando non mi presentai per protesta. Dopo l’ennesima perizia, decisi di protestare con volantini, cartelli e striscioni. Decisi anche di scioperare e in due occasioni venni arrestato perché accusato, ingiustamente, di aver reagito alle forze dell’ordine, che cercavano di bloccare le mie proteste. Venni denunciato anche per interruzione di pubblico servizio, per aver esposto in ufficio un cartello con scritto “Abusi in corso“, con l’elenco delle perizie psichiatriche a cui ero stato sottoposto. La notizia delle perizie finì sui giornali, creandomi un danno di immagine tale da portarmi alla separazione con mia moglie e allo sfascio della mia famiglia. I miei figli addirittura chiesero di cambiare cognome.
Il 15 settembre del 2002, dopo 10 anni di patimenti, arrivò il licenziamento (per due casi di assenza dal lavoro, dopo il trasferimento alla Polizia Stradale di Alessandria, il secondo dei quali in concomitanza con una modifica dell’orario di lavoro senza preavviso, ndr). Da Alessandria tornai a casa da mia madre, a Imperia.
Decisi di fare ricorso contro il licenziamento e, il 28 maggio 2008, al termine del processo, il Tribunale di Alessandria ne dichiarò l’illegittimità, ordinando la mia reintegrazione nel posto di lavoro, la ricostituzione della posizione previdenziale e il versamento dei relativi contributi. Il Ministero dell’Interno il 13 settembre presentò ricorso e lo vinse, in quanto il mio avvocato non presentò opposizione al ricorso entro i termini previsti dalla legge. Una mancanza che mi fece ripiombare negli abissi.
Tentai così una causa civile contro il mio avvocato, che si è conclusa nei giorni scorsi, con il risarcimento disposto dal Tribunale di Torino“.
Alla luce dei fatti di cui è stato protagonista, si sente una vittima del sistema?
“No, a me non piace essere definito né vittima né perseguitato. Mi sono sentito tradito da chi consideravo un mio difensore, specialmente dai sindacati, che non solo non sono stati amici, ma si sono rivelati nemici. Ho avuto a che fare con poteri superiori alle mie forze, impossibili da contrastare“.
Secondo lei, dunque, ci sono dei poteri forti che hanno avuto un ruolo importante in questa vicenda?
“Non voglio essere considerato complottista, ma ci sono stati molti episodi che mi hanno fatto rendere conto di essere un personaggio scomodo, da mettere a tacere con avvisi velati. Altrimenti non si spiegherebbe il mio licenziamento per motivi disciplinari assolutamente pretestuosi.
Allora il termine mobbing non esisteva, ma, subito dopo aver denunciato le irregolarità che avevo scoperto, iniziai ad essere marginalizzato dai colleghi, e fui sempre più isolato. Cominciarono poi le minacce dai miei superiori, non sempre tra le righe, che aumentarono talmente tanto da farmi preoccupare per la mia incolumità e quella della mia famiglia. La mia storia non è solo mobbing“.
Dopo questi lunghi anni di battaglia e sofferenza, si sente soddisfatto della sentenza di condanna per il suo ex avvocato, che ha messo fine a questa storia?
“Quella di adesso è stata una vittoria molto sofferta, che mi ha ripagato solo parzialmente dei danni che ho subito in tutti questi anni. Ai tempi dei fatti, tutto ciò che desideravo era la mia riabilitazione, non i soldi. Non solo per ottenere di nuovo il posto di lavoro che mi spettava, ma soprattutto per restituire dignità alla mia famiglia. Al contrario, la mia immagine era stata distrutta a causa delle continue richieste di perizia, e quando arrivò il licenziamento fu come la conferma della fondatezza di quei provvedimenti nei miei confronti. Nonostante il licenziamento fosse stato immediatamente riconosciuto illegittimo, non fui reintegrato per colpa di un errore formale del mio avvocato, perciò non c’è stato modo di restituire onore al cognome della mia famiglia“.
Ora che tutto si è concluso, rifarebbe tutte le azioni e le scelte che ha compiuto in questi 35 anni di battaglie?
“Se sei un cavaliere solitario sì, io ho coinvolto le persone a me più care, e ho perso molto di più del mio posto di lavoro. Ho lasciato i miei figli a 6 e 8 anni, e li ho rivisti 10 anni dopo. Sicuramente rifarei tutte le proteste, a costo di perdere la mia credibilità, poiché, una volta che era partita questa macchina, non restava altro che agire di conseguenza per non rimanere travolti“.