26 Dicembre 2024 03:17

26 Dicembre 2024 03:17

LE RICETTE DELLO CHEF IMPERIESE RUBEN RAPETTI CONQUISTANO IL CANADA:”PENSAVO DI DIVENTARE UN INSEGNANTE DI CULTURE ASIATICHE, POI…”/LA STORIA

In breve: Ha girato le cucine di tutto il mondo, dall'Italia al Regno Unito, dalla Cina al Canada, dove ora si trova a gestire come Corporate Chef ben 23 ristoranti nell'Ontario.

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Ha girato le cucine di tutto il mondo, dall’Italia al Regno Unito, dalla Cina alla Francia, e ora si trova a gestire, come Corporate Chef, ben 23 ristoranti in Canada. Stiamo parlando dello Chef Ruben Rapetti, 33 enne imperiese che, da quasi 4 anni, si trova nell’Ontario, raggiungendo enormi soddisfazioni nel campo della cucina.

La storia di Ruben ha preso una piega inaspettata poichè, appena uscito dall’Università di Bologna, dove si è laureato in Culture Asiatiche, si è trasferito a Pechino, in Cina, per studiare cinese, con l’intento di diventare un insegnante di questa cultura. La vita, però, non sempre va secondo i piani e, dopo alcuni mesi, Ruben ha deciso di dare una svolta diversa al proprio percorso, iniziando a lavorare nelle cucine dei ristoranti italiani della zona. Da quel momento ha scoperto la passione il mondo culinario e non l’ha più abbandonata.

DA COSA È NATO IL TUO “CAMBIAMENTO DI ROTTA”?

“È stato graduale. Ho iniziato a cucinare in Cina, dove mi ero trasferito a 22 anni inizialmente con l’intento di studiare il cinese, per diventare un insegnante delle culture asiatiche. Dopo 6 mesi, però, ho iniziato a capire che quel percorso non faceva per me e che ci sarebbero voluti anni per arrivare da qualche parte. Così ho deciso di trovarmi un lavoro. È da lì che ho cominciato a lavorare nelle cucine dei ristoranti italiani di Pechino. Prima avevo fatto qualche stagione nei ristoranti imperiesi d’estate, nulla di più. All’inizio non sapevo se sarebbe stato qualcosa di temporaneo oppure no, mi stavo facendo un po’ di esperienza. Alla fine ci sono rimasto 3 anni, spostandomi da Pechino, a Shanghai e infine a Nanchino, al Jingling Hotel. È stato lì che ho capito che mi sarebbe piaciuto lavorare in questo settore, poichè ho avuto l’occasione di lavorare in una grande brigata, con più di 100 cuochi. Non sapevo ancora che la cucina sarebbe diventata la mia vita”.

COME HAI FATTO A FARE UN SALTO DI QUALITÀ?

“Mi mancava un’esperienza di alto livello, avevo 24 anni e non sapevo ancora com’era veramente il mondo della cucina. Così ho messo i soldi da parte per la scuola di cucina “Alma” a Colorno, Parma, l’unica scuola in Italia ad alto livello. Lì ho studiato come cuoco per 6 mesi e dopo ho fatto stage di 6 mesi al ristorante “Piazza Duomo” ad Alba, come commis di cucina. Questa esperienza mi è servita, più che per l’aspetto scolastico, soprattutto per l’ingresso nell’alta cucina, poichè lo stage mi ha dato accesso a un più grande range di ristoranti. Infatti, subito dopo sono andato a Longville Manor, Jersey Island, Inghilterra, come Chef Entremetier (chef delle guarnizioni)”.

QUANDO INVECE SEI ANDATO IN FRANCIA, È ARRIVATA L’ESPERIENZA PIÙ IMPORTANTE PER LA TUA CARRIERA. RACCONTACI.

“Facendo parte di un’associazione di chef italiani che lavorano all’estero è arrivata un’offerta tramite Mauro Governato, General Manager del Four Seasons Hotel, per lavorare al Terre Blanche Four Seasons Hotel, in Provenza, come Junior sous chef. Quello ha cambiato la mia formazione in modo definitivo. All’inizio ero quasi spaventato, perchè avevo la prima posizione alta della mia carriera, in una cucina con 60 persone, con partite divise come si dividevano una volta nei grandi hotel, in cui ognuno aveva dei sotto-responsabili. All’inizio è stata dura perchè il mio francese era basilare, solo scolastico, e anche perchè all’inizio non ero molto ben visto. Lì, infatti, hanno una maniera per scremare chi non è all’altezza del livello, tutti sono un po’ duri con i nuovi arrivati, nessuno parla inglese, sebbene lo conoscano, e ti mettono alla prova. Ma dopo poche settimane è cambiato tutto. In cucina si hanno momenti in cui si lega, quando il ristorante si riempie e si lavora gomito a gomito senza pause in sintonia, si diventa una famiglia. Lì ho conosciuto chef che sono diventati i miei “mentor”, mi hanno insegnato a cucinare, a tenere la cucina in ordine e a fare il capo. Mi hanno insegnato tutto quello che so. È stata la più grande esperienza culinaria che io abbia mai avuto”.

COME SEI FINITO A TORONTO?

“Quando il padrone di Terre Blanche ha lasciato l’hotel mi ha proposto di andare a Toronto per aprire un Four Seasons nuovo, dato che quello che c’era era stato aperto quasi 20 anni prima.  Così mi sono trasferito un’altra volta, questa volta a Toronto, in Candada, per lavorare come Banquet Chef. Un’altra esperienza nuova, dove avevo molte responsabilità. Organizzavo banchetti, room service, caffetteria, mensa degli impiegati (più di 400 persone). Venendo da un resort in francia non facevo banchetti per più di 100 persone, mentre lì sono arrivato a più di 1000 persone divise in 8 stanze e avevo una brigata di 60 persone da gestire. Ho trovato un ambiente diverso tra persone fisse e persone part time che chiamavo quando avevo bisogno”. 

QUALI DIFFERENZE CI SONO TRA UNA CUCINA ITALIANA E UNA DI TORONTO?

Toronto è una delle città più cosmopolite al mondo, è una città di immigrati e quindi anche il menu doveva rispecchiare la domanda di una città dove le culture diverse si mescolano, tra indiani, italiani, francesi, giapponesi, sudamericani, ecc. Avevo chef che arrivavano da tutte le realtà e da tutti i paesi. Mi ricordo che dopo una settimana dal mio arrivo mi sono ritrovato in cucina e, guardandomi intorno, ho pensato: ‘In questo momento siamo in 15 in cucina e nessuno è della stessa nazionalità'”.

QUALI DIFFICOLTÀ HAI INCONTRATO?

La diversità, oltre che uno stimolo, è stata anche una difficoltà, perchè culture diverse significa formazione diversa e, spesso, pochi erano veramente formati in realtà di alta cucina come me. Sicuramente, però, la cosa più difficile è stata trovare una maniera per insegnare al mio team cosa fare. Qui in Canada bisogna usare un approccio diverso da quello che si può usare in Italia o in Francia. Non si può semplicemente “sgridare” un dipendente se fa un errore, qui le persone sono più sensibili, più chiuse. Ho dovuto cambiare il mio approccio di insegnamento. Qualcuno nel frattempo si è licenziato e io ero frustrato. Inoltre, al Four Seasons c’è un sindacato che prevede molte restrizioni sull’approccio con il personale, per esempio, io, come capo, non posso fare il lavoro di qualcun altro, anche se lo fa nel modo sbagliato, perchè quest’ultimo si può lamentare perchè prendo la sua posizione”. 

PER RIUSCIRE A ESSERE UN CAPO VALIDO, HAI INIZIATO A STUDIARE “COACHING”. COME TI HA CAMBIATO?

“Un anno fa ho lasciato Four Seasons per entrare al Tortoise Restaurant Group, un’azienda composta da quasi 30 ristoranti, come Corporate Chef,  e ho iniziato a studiare Coaching, per riuscire ad apprendere il giusto approccio che si deve avere nei confronti dei dipendenti, colleghi e clienti. Questo mi ha cambiato la vita, mi ha aperto la mentalità su tutto e ha cambiato la mia maniera di lavorare. Se c’è un problema, si hanno le “coffee chat”, le chiacchierate davanti a un caffè. Quindi, se si hanno delle frustrazioni si fa una seduta con l’impiegato e si affronta il percorso lavorativo, si guardano gli obiettivi da raggiungere in un determinato tempo, si discute su cosa deve cambiare per avere successo. Immagina un cuoco che sta tagliano una carota a dadi e li fa tutti diversi, senza voglia e motivazione. A differenza di quanto può succedere in Italia, in cui magari si tira un urlo per farlo tornare in riga, qui si fa una seduta e si spiega perchè la carota dev’essere servita in un modo e perchè è importante che il cliente noti l’attenzione nei dettagli. Si spiega che il lavoro che sta facendo fa parte di un lavoro del team e che, se tutti fanno bene il loro compito, tutti raggiungono obiettivi più alti. Motivandolo dicendo che se vuole andare avanti deve dare l’esempio. Di solito dopo le sedute, le persone sono più rilassate, più motivate. È difficile motivare qualcuno a tagliare carote e cipolle per 8 ore senza pausa e con una paga bassa. L’unico modo è motivarli e fagli capire perchè deve farlo al meglio, facendoli vedere che fa parte del processo. Ora il mio lavoro è per il 50% fare menù e insegnarli e per il restante 50% motivare lo staff”. 

LA DOMANDA ORMAI È D’OBBLIGO IN QUESTI CASI: TORNERESTI A VIVERE A IMPERIA?

“Mi manca casa, questo è sicuro, però non penso che potrei mai trovare una posizione lavorativa del genere e una compagnia dove lo sviluppo è così grande a Imperia. Magari in grandi città, ma qua lo sviluppo è più veloce, i soldi girano e si investono in nuovi ristoranti. Per ora quindi è escluso che io torni a Imperia. Qui sono responsabile di 23 ristoranti, sono autonomo, ho una vita decente e in più faccio quello che mi piace per lavoro e senza stress. Creo le ricette e le insegno, faccio coaching, vado in giro a cercare nuovi prodotti, nuove idee”. 

COS’È IL SUCCESSO SECONDO TE?

“Il successo nella vita non è andare in alto, ma è raggiungere quello che ti rende felice. Ho amici a Imperia felicissimi di fare quello che fanno, che vanno al mare tutti i giorni, hanno una famiglia e un ritmo di vita diverso. A volte, infatti, quando torno, a volte domando a me stesso se ne è valsa la pena. Sicuramente è un peccato che Imperia stia soffrendo per mancanza di soldi e opportunità. Se avessi un altro tipo di lavoro più stabile potrei pensarci, ma, nella mia industria, potrei giusto aprire il mio ristorante, ma dovrei lavorare 15 16 ore al giorno in una realtà molto più difficile, dove è all’ordine del giorno la chiusura delle attività o che fanno fatica ad andare avanti. Da qui a 5 anni, quindi, penso proprio che sarò sempre qui”.

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