Alessia Gervasi, 36 anni, di Sanremo, dopo la morte del padre, avvenuta nei giorni scorsi presso l’Ospedale di Sanremo, ha scritto, in un misto di rabbia e amarezza, una lettera alla nostra redazione e ha informato dei fatti accaduti sia l’assessore regionale alla sanità Sonia Viale sia il direttore generale dell’Asl 1 imperiese Marco Damonte Prioli.
“Un venerdì pomeriggio, alle 15.30, – scrive – mio padre arriva in ambulanza al Pronto Soccorso di Sanremo, per una brutta caduta dalle scale. Ha una ferita alla testa, è cardiopatico in terapia con anticoagulanti. Alle 21.30 viene visitato, gli vengono messi i punti in testa e viene mandato a fare lastre e tac. Credo che sei ore di attesa, viste le sue condizioni, possano solo dimostrare che qualcosa nel triage non ha funzionato. Si era anche fatto presente che mio padre, giusto un anno prima, aveva subito un incidente simile, riportando la frattura di 8 costole e la perforazione di un polmone. Incidente a cui erano seguiti 9 mesi tra ospedali e riabilitazione, ma da cui era uscito anche grazie a una forza di volontà impareggiabile.
Stavolta la situazione è meno grave, ma deve essere comunque ricoverato. Non essendoci posto in alcun reparto, sia il venerdì notte, che il sabato viene tenuto in Pronto Soccorso, dove a quanto pare il personale non deve somministrare farmaci, compresi i farmaci salvavita previsti da terapia personale, anche se al riguardo la comunicazione non è stata proprio limpida. Infatti, quando la domenica chiedo se gli sia stata somministrata la terapia, mi viene risposto, in modo alquanto scocciato, come se la mia domanda fosse quanto di più inappropriato al luogo, che ‘No, la terapia non gli è stata somministrata’. Non riesco ad avere aggiornamenti sul suo stato nemmeno dal medico, che mi liquida con un ‘Lo trasferiamo, parlerà col medico in reparto’. Che chiaramente non può sapere nulla di mio padre, ma intanto, ci diciamo ‘Finalmente magari qualcuno si occuperà di lui’. Ormai però è troppo tardi, due giorni senza farmaci salvavita sono troppi anche in presenza di una volontà di ferro e mio padre non ce la fa. Il martedì pomeriggio ha una crisi respiratoria (o almeno così crediamo, perché, anche al riguardo, la trasparenza non è stata il punto forte).
Questa lettera non vuole essere semplicemente uno sfogo contro un sistema sanitario notoriamente al collasso: sì, siamo tutti pienamente coscienti che la sanità pubblica in Italia non funziona, che il personale non è sufficiente, che alla fine, per quanto sia triste ammetterlo, può curarsi degnamente solo chi ha i mezzi economici per farlo privatamente, perché prenotare una visita tramite il servizio ospedaliero comporta tempi di attesa compatibili solo con controlli di routine e non con le urgenze. Il problema è che, se per una visita specialistica, avendone i mezzi, si può scegliere di pagare, quando si tratta di emergenze, siamo tutti obbligati alla sola scelta del pronto soccorso, siamo tutti poveri senza alternative.
Se a questo si aggiunge la sfortuna di dovercisi recare nel fine settimana, bisogna solo sperare di non avere niente di grave, altrimenti la concomitanza del maggior accesso di persone, che nei giorni festivi non hanno nemmeno il medico di famiglia a cui rivolgersi, e della scarsità di personale -che forse andrebbe implementato, proprio in ragione di quest’ultima motivazione, e invece sembra uguale se non ridotto- lascia ben poche vie di uscita. E quando ti chiedono come mai tuo padre, tuo marito, è morto così inaspettatamente, perché in ambulanza era salito con le sue gambe e niente lasciava presagire che la situazione fosse grave, tu rispondi che è morto perché è finito in pronto soccorso durante il fine settimana, e trovi solo chi annuisce dicendoti che allora è normale. Normale. Ma non è accettabile che, in un paese civile quale pretendiamo di essere, questa sia la normalità. Non è normale finire al pronto soccorso e morire perché in reparto non c’è posto e personale maleducato e disorganizzato, a fronte di educazione e rispetto (perché purtroppo mio padre mi ha insegnato così) non si fa carico della responsabilità di curare persone.
Perché purtroppo, il dubbio – a voler essere clementi- che sia stato solo il candido menefreghismo di chi si permette di rispondere che ‘No, la terapia non gli è stata somministrata’, come se si trovasse lì per caso e non per curare persone, a far morire mio padre, rende il tutto insostenibile. Perché se perdere una persona cara, un padre, un marito, è naturalmente difficile ma, presto o tardi, da mettere in conto nel naturale ciclo della vita, diventa inaccettabile se la perdita è causata da incompetenza e leggerezza.
Questa lettera la devo a lui, ai suoi ideali alti, al suo credere nel servizio pubblico e a un giuramento di Ippocrate che trascenda dalle possibilità economiche del singolo, al suo indignarsi di fronte a fenomeni di ingiustizia e di squallore quale quello di cui è stato vittima, al suo pretendere un mondo in cui non si può morire solo perché la domenica è giorno festivo”.