Un libro disarmante e profondo, che mette a nudo la complessità dell’animo umano. Stiamo parlando de “Le assaggiatrici” di Rosella Postorino.
L’autrice è legata al nostro territorio poiché, sebbene di origini calabresi, è cresciuta a San Lorenzo al Mare, un luogo che ha contribuito alla formazione della persona che è oggi. Il suo ultimo romanzo, edito da Feltrinelli, sta avendo un incredibile successo e affronta la tematica del nazismo in Germania da una prospettiva originale e inedita.
ImperiaPost ha contattato Rosella Postorino per conoscere tutti i retroscena che hanno portato alla creazione di questa opera.
QUAL È LA TRAMA DE “LE ASSAGGIATRICI”?
“È la storia di dieci donne che fanno un lavoro molto particolare e rischioso: assaggiano tutti i giorni, per tre volte al giorno, il cibo destinato a Adolf Hitler. Non lo hanno scelto, sono le SS ad aver scelto per loro. Il paese in cui abitano è sfortunatamente molto vicino alla Wolfsschanze, la Tana del Lupo, quartier generale che Hitler fece costruire nella Prussia Orientale per essere più vicino al fronte russo.
La storia è raccontata in prima persona dalla voce di Rosa Sauer, che da Berlino si rifugia a Gross-Partsch, dai suoceri, dopo essere rimasta sola: il marito combatte in Russia e la sua casa è stata bombardata. Lì diventa un’assaggiatrice e sperimenta ogni giorno la coercizione, la progressiva perdita di dignità e la colpa che le impone il suo istinto di sopravvivenza. Eppure, nonostante tutto, Rosa continua a desiderare. Stringe amicizie, nasconde segreti, si innamora, aspetta, rimpiange, si dispera, tradisce, mente, perde ogni speranza ma, e questo la sorprende, non si stanca mai di vivere”.
LA STORIA SI ISPIRA A UNA DONNA REALMENTE VISSUTA, MARGOT WOLK, COME L’HA SCOPERTA?
“L’ho scoperta per caso leggendo il giornale. Nel 2014, a settembre, trovai un trafiletto che parlava dell’ultima assaggiatrice di Hitler ancora in vita. Questa novantaseienne interrompeva il silenzio per la prima volta confessando al mondo la sua terribile esperienza. La vicenda mi colpì e quindi cercai questa donna, Margot Wölk. Quando, dopo mesi, riuscii finalmente a trovarla, scoprii che era appena morta. Dunque non ho mai potuto parlare con lei. Ho però esplorato i posti in cui è vissuta. Sono andata a Parcz, in Polonia, che è rimasto un villaggio rurale esattamente come negli anni Quaranta. A circa otto chilometri da lì ci sono le macerie dei bunker della Wolfsschanze, le ho visitate con una guida e ho anche dormito in un b&b allestito nell’ex quartier generale. Poi sono andata a Schmargendorf, la zona di Berlino in cui Margot Wölk è nata e dove ha fatto ritorno nell’autunno del ‘44 scappando sul treno di Goebbels. Sono riuscita a parlare con la sua vicina, che mi ha raccontato di lei. In realtà non ci sono notizie riguardo alle assaggiatrici di Hitler, a parte la testimonianza di Margot Wölk, e quindi per ricostruire, anzi per immaginare, la loro quotidianità, oltre all’invenzione romanzesca, mi è stato utile leggere memoir di persone che avevano lavorato per il Führer, come le sue segretarie, per esempio, e poi romanzi, biografie, saggi, diari che narrano di quell’epoca”.
PERCHÈ HA VOLUTO SCRIVERE UN LIBRO PROPRIO SU QUESTO PERIODO STORICO IN PARTICOLARE?
“Non ero interessata al periodo in sé. Se non avessi incrociato per caso la storia di Margot Wölk, con tutta probabilità non avrei mai scritto di Nazismo, e credo di averlo fatto in maniera laterale, sebbene storicamente documentata. Ero interessata a quell’esperienza in cui si fondevano la condizione di vittima e quella di colpevole, in cui proprio nella vittimizzazione queste donne diventavano colluse, in cui il gesto necessario, inevitabile, di mangiare per non morire significava rischiare continuamente la morte. Era questa contraddizione a interessarmi. Assieme al modo in cui l’istinto di sopravvivenza diventa risorsa e tuttavia condanna per ogni essere umano”.
NONOSTANTE LA DRAMMATICITÀ DEGLI EVENTI, MARGOT WÖLK NON PUÒ FARE A MENO DI RICORDARE LA BONTÀ DEI CIBI CHE ASSAGGIAVA. COME SI SPIEGA?
“Fu proprio ciò che mi colpì dell’articolo. Lei ricordava la mensa in caserma come una prigione, una schiavitù, un banchetto quotidiano con la morte, un incubo. Nello stesso tempo però sapeva che si trattava anche di un privilegio. Debilitate dalla guerra e dalla fame, quelle donne si trovavano di colpo a poter mangiare pietanze saporite, fresche, persino sofisticate. Questa contraddizione era la metafora perfetta del loro ruolo e della loro situazione esistenziale”.
LEI SI CHIEDE:”FINO A CHE PUNTO È LECITO SPINGERSI PER SOPRAVVIVERE?”. HA TROVATO UNA RISPOSTA A QUESTA DOMANDA?
“Se l’avessi trovata, non avrei lavorato per tre anni e mezzo alla scrittura di un romanzo. Che può porsi e porre domande, aprire squarci, ma non deve dare risposte, altrimenti fa un lavoro diverso dalla letteratura”.
COME SI PUÒ INTERPRETARE LA STORIA D’AMORE CONTROVERSA TRA LA PROTAGONISTA E UN TENENTE DELLE SS?
“Per me rappresenta da un lato il modo in cui la colpa accidentale di Rosa diventa una colpa vera e propria, sebbene il desiderio stesso sia a sua volta un incidente: semplicemente accade.
Rosa è sola, privata di tutto, anche del contatto del proprio corpo con un altro. La sua vita è sospesa, ridotta alle funzioni fisiologiche della sopravvivenza, al rischio mortale che lei corre ogni giorno – non più di chiunque sia vivo, considera d’altra parte. Quando Ziegler si presenta alla sua finestra, le sembra l’ennesima forma di prevaricazione cui non può sfuggire. Invece, pian piano, quello sguardo muto al di là del vetro si trasforma in attesa, in incontro: è un evento. Accanto al corpo di Ziegler, il corpo di Rosa si sente, banalmente, meno solo. Desiderato, confortato, riempito di nuovo di senso”.
QUESTO LIBRO STA AVENDO UN GRANDISSIMO SUCCESSO, SECONDO LEI IL MOTIVO STA NEL FATTO CHE SI AVVERTE LA NECESSITÀ DI RICORDARE?
“Il romanzo racconta un periodo storico molto narrato, su cui non si finirà mai di scrivere, e per fortuna, ma lo fa da un punto di vista del tutto inedito. D’altronde il mio interesse era raccontare non una storia circoscritta, limitata a un tempo preciso, ma una storia di ogni tempo, che prova a rendere conto dell’ambivalenza dei comportamenti umani. Certo che è necessario ricordare, nell’epoca smemorata in cui viviamo mi pare anche molto urgente”.
LEI È DI ORIGINE CALABRESE, MA HA VISSUTO DIVERSI ANNI IN PROVINCIA DI IMPERIA, A SAN LORENZO AL MARE. COME HA INFLUITO QUESTO LUOGO NELLA SUA CRESCITA PERSONALE?
“Quando ero ragazzina San Lorenzo al Mare era, per me, il luogo perfetto in cui vivere. Mi sentivo fortunata a stare in un posto dove capitava di dare il primo bacio su una spiaggia, dove si passeggiava sulla battigia anche d’inverno, dove si andava in chiesa col costume sotto i calzoncini, già pronti per il bagno, dove non c’era nulla, solo il mare, con tutto il suo portato di altrove da sognare. Un posto piccolo è protettivo e rassicurante, ma ti costringe anche a chiederti che cosa vuoi essere, perché per essere qualcosa forse dovrai abbandonarlo. Ti insegna lo strappo come modo per crescere. Ti insegna lo sforzo. La malinconia. Il ritorno. In quel posto dove non c’erano né cinema né biblioteche né teatri (ma adesso sì: c’è il bellissimo Teatro dell’albero), una come me passava il tempo a coltivare un mondo immaginario che è parente stretto della scrittura”.