È ormai all’ordine del giorno sentire frasi come “Buttare via la chiave”, “Marcire in prigione” o “Quello è un mostro” riferite a notizie di cronaca, purtroppo frequenti, in cui si verifica una violenza sessuale di genere.
Per evitare di fermarsi a un’indagine superficiale di questa tematica così spinosa e delicata, il criminologo milanese Paolo Giulini è venuto in visita a Imperia, invitato dall’associazione ApertaMente, per affrontare da un punto di vista diverso questo argomento, ossia quello dell’autore degli atti violenti.
Come spiega l’esperto, infatti, spesso la pena detentiva da sola si rivela inadeguata per evitare la recidività. Occorre quindi pensare strategie di intervento e prevenzione, attraverso un approccio rieducativo e riabilitativo del reo. Proprio per questo motivo, la conferenza di venerdì 15 giugno, avvenuta in via De Magny, si intitolava “Buttare la chiave?” con il punto di domanda finale.
L’evento è stato organizzato dall’associazione culturale ApertaMente Imperia nel piano delle attività programmate per l’anno 2018 (“Incontri ravvicinati per un’etica del terzo millennio”), con il supporto del CE.S.P.IM e il patrocinio del Comune di Imperia.
Chi è Paolo Giulini
Paolo Giulini, criminologo clinico, si occupa da molti anni di mediazione sociale e penale e di trattamenti di prevenzione della recidiva, in particolare per le condotte violente e la violenza sessuale. E’ uno dei fondatori ed attuale presidente del CIPM (Centro Italiano per la Promozione della Mediazione), associazione presente a livello nazionale che opera in collaborazione con il settore giudiziario, gli enti locali e le forze dell’ordine per la prevenzione dei reati violenti e per il sostegno delle vittime.
Dirige il Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano, ed è responsabile dell’ Unità di trattamento intensificato per autori di reati sessuali presso la Casa di reclusione di Milano-Bollate.
Anna Littardi, educatrice professionale
“In Italia c’è una scarsa consapevolezza della gravità delle violenze di genere. Le statistiche parlano di 1 donna 3 vittima nel corso della sua vita di almeno un tipo di violenze e la maggior parte non denuncia perché non si sente tutelata. Negli anni abbiamo ascoltato tante storie di sofferenza e disagio, è un fenomeno presente nella nostra provincia e città che riguarda tutte e tutti.
“Buttare via la chiave” non è una modalita che permette il cambiamento e nel momento in cui le persone responsabili di atti vi violenza usciranno dal carcere potrebbero tornare a compiere atti violenti. Parlare e affrontare questo discorso non significa giustificare, ma capire”.
Paolo Giulini
“Il titolo della conferenza prevede il punto di domanda proprio perché è un po’ lo spunto che ho avuto in questi anni di attività di criminologo clinico in carcere, nell’esperienza del lavoro in carcere e sul territorio nell’ambito di prevenzione della violenza, effettivamente sull’efficacia che ha il nostro sistema di intercettazione penale di questo tipo di situazione. Ci siamo accorti che è importante unire al percorso della pena anche un percorso di trattamento per dedicarci agli autori di condotte violente sia in ambito sessuale, domestico, sia stalking e atti persecutori, per evitare che ci siano delle recidive. Spesso gli autori di violenza hanno la tendenza di ripetere questi atti anche dopo la pena. L’obiettivo è avere meno vittime possibili nell’ambito della convivenza sociale.
È molto importante che ci sia una risposta punitiva, che il sistema normativo preveda delle norme che intervengano per interrompere questi atti di violenza. Le nostre leggi italiane sono molto avanzate da questo punto di vista.
Abbiamo avuto delle leggi per la violenza sessuale, quella del ’98 per la pedopornografia e le leggi del 2013 sulla violenza domestica, quella del 2009 sullo stalking, che prevedono tutta una serie di interventi intercettativi importanti e anche di risposta retributiva, aggravi di pena per queste condotte.
Il problema è di riuscire a rendere efficiente queste risposte intercettative con dei sistemi trattamentali, degli interventi trattamentali che tra l’altro sono previsti dall’ordinamento penitenziario, ma che devono essere caratterizzati dalla qualità e dall’efficacia dell’intervento per evitare che le pene siano eseguite senza che abbiano dei risultati.
Il risultato è riuscire a riportare queste persone nell’ambito del sistema civile e della società, cioè di costruire degli uomini, quando queste persone nel passato però sono autorizzati a commettere degli atti che non sono atti di relazione, ma sono atti di violenza. Questo deve passare per forza, oltre alla risposta anche simbolica della pena ad una capacità di strutturare per queste persone degli interventi tarttamentali e di accompagnamento sul territorio anche dopo l’esecuzione della pena in carcere”.
Cosa spinge alla violenza? Chi è commette maggiormente atti violenti?
“L’autore di violenza nell’ambito relazionale che è un po’ la caratteristica sia degli atti sessuali che dagli atti di violenza domestica, i reati sessuali per la maggior parte sono commessi in situazioni relazionali, non è la figura dello stereotipo che noi abbiamo dell’anziano assetato di sesso che nei giardinetti va a corrompere i bambini con le caramelle. I soggetti che noi incontriamo durante il trattamento sono in gran parte padri di famiglia, fratelli, zii, educatori, persone a cui si da fiducia e violano questa fiducia con queste condotte.
Sono definiti dei reati nella relazione. La gran parte dei soggetti che commettono reati relazionali non appartengono ad una categoria psicopatologica, non si può dare una descrizione psicologica che corrisponda un po’ a tutti costoro. Sicuramente è una categoria criminologica, sono categorie che prevedono delle risposte e dunque delle condanne. Sono dei reati.
Noi vediamo di frequente, gli aspetti comuni che ci sono nelle persone che stiamo trattando, sono legati sicuramente a degli sviluppi disfunzionali nella vita di queste persone, durante l’allevamento, durante il percorso dell’infanzia, pre adolescenza e adolescenza.
Ci sono situazioni in cui noi incontriamo delle persone che a loro volta sono state vittime di condotte di abusi sessuali, di violenza o per esempio di condotte di violenza assistita. Possono rappresentare un quarto, un quarto dei nostri utenti per esempio hanno subito e hanno una storia di violenza sessuale subita nella loro infanzia o adolescenza.
La realtà è che comunque il 100% delle persone con cui stiamo lavorando in questi anni, hanno un’infanzia non protetta. Questa infanzia non protetta genera anche quegli aspetti dello psichismo, della fragilità, che porta a far si che il modo di affermare dei bisogni, che sono bisogni che noi tutti condividiamo, per lo però è un modo disfunzionale. Attacca l’altro, aggredisce l’altro, si nutre della paura che vede nell’altro, nelle proprie condotte, partendo dalla paura fondamentalmente nei confronti della donna, nei confronti della relazione.
Spesso e volentieri sono persone che hanno delle basse attività sociali, sono persone che non hanno delle grandi risorse dal punto di vista comunicativo, che non hanno una grande autostima, non sono state abituate a entrare in contatto con aspetti di sé e riconoscerli come aspetti positivi”.
Come si può affrontare questo argomento con un approccio diverso da “Buttare via la chiave”?
“Io credo che occuparci di trattare il violento, metterci in un certo senso a lavorare con la persona che commette violenze, soprattutto nell’ambito di chi commette reati relazioni, sia non solo una prospettiva di tipo clinico, ma sia anche una sfida culturale.
Il reato sessuale, renderlo pensabile non significa accettarlo, non significa giustificarlo, significa rendersi conto della problematica che c’è dietro al reato sessuale anche a livello sociale. È un fenomeno molto più diffuso di quello che noi sappiamo dalle inchieste giudiziarie.
È un fenomeno sommerso, è un fenomeno che non permette di essere riconosciuto perchè spesso le vittime non riescono a denunciare, e sono fenomeni che se vengono resi pensabili, possono essere trattati, presi in carico, si può affrontare delle strategie di intervento che rendono sempre più efficace il controllo di questi fenomeni.
Se andiamo solamente a pensare al mostro, all’orco, alla raffigurazione pura del male, è un po’ come se prendessimo le distanze noi stessi da queste condotte. Come dice Freud effettivamente ci sono delle parti in tutti noi uomini che turbano o che sono perturbanti e che comunque allontanano quest’immagine del mostro, quest’immagine della cattiveria dell’altro, in un certo senso è come se riuscisse a proteggerci da quegli aspetti che anche noi di aggressività e a volte anche di male portiamo dentro, ma che siamo in grado visto che siamo esseri civili e sociali di gestire e neutralizzare e non portiamo all’atto. La differenza è che queste perosne questo passaggio non sono capaci a farlo.
Noi dobbiamo occuparcene proprio per evitare che facciano vittime e poi quelle vittime, spesso e volentieri, possano diventare a volte dei carnefici.
Si tratta di interrompere dei cicli perversi. La legge ci dà gli strumenti per farlo e il resto è riuscire a trattare anche queste persone”.
Come si affronta la questione nei casi dei giovanissimi?
“Tocca un tema molto poco conosciuto nel paese. Noi abbiamo dei dati che ci dicono che la gran parte di ogni condotta sessuale avvengono proprio nell’età dell’adolescenza. Pare tra i 14 e i 17 anni, sono i picchi della violenza sessuale. Nel nostro paese non abbiamo un’attenzione particolare specifica per questi fenomeni. Spesso e volentieri, quando si ha una situazione di violenza sessuale che si sviluppa, emerge in adolescenza, questo tipo di persona rischia di avere uno sviluppo ancora più compulsivo della problematica sessuale degli altri.
Se non si ferma in quella fase, si affronta il problema quando questa persona è in sviluppo, rischia di solidificarsi e diventare addirittura anche un aspetto di serialità, di compulsività della propria devianza sessuale.
Oggi è molto importante intervenire anche sul mondo dell’adolescenza, con i tribunali per i minorenni, in particolare riuscire ad accoppiare il binomio legge-trattamento con dei sistemi, con delle comunità, con degli interventi specifici sulla questione della devianza sessuale.
Purtroppo questo in Italia non c’è, non c’è una sola comunità per il trattamento degli adolescenti autori di reati sessuali in tutta Italia.
Per quanto riguarda l’ambito dei minori nei reati sessuali, non hanno all’interno delle prescrizioni specifiche per il problema della condotta sessuale deviante. Per cui è un problema che deve essere affrontato, su cui abbiamo enormi carenze. In Canada e Usa più del 50% dei programmi trattamentali per gli autori di reati sessuali sono dedicati agli adolescenti”.
Ha dei dati da illustrarci?
“Il fenomeno della violenza sessuale e domestica in Italia per la prima volta è stato evidenziato dalle inchieste di vittimizzazione, con le indagini famose dell’Istat del 2006 e 2007, finite sulle prime pagine dei giornali, che illustravano che 1 donna su 3 e 1 minore su 4 in Italia sono vittime di abusi o violenze sessuali, dato molto preoccupante. I dati a livello giudiziario non corrispondono alla diffusione del fenomeno. Le inchieste di vittimizzazione ci dicono che è un fenomeno più sviluppato, non tanto da parte dello sconosciuto. Quasi il 90% degli abusi su minori avvengono all’interno della famiglia o delle relazioni parentali. Nel 2017 l’Istat ci dà dei dati di nuovo preoccupati. Il fenomeno è sommerso, quello che evidenzia è la parte piccola del fenomeno. La vera sfida è dare risposte precise e punitive che diano la possibilità di recuperare queste persone, per renderle innocue e dare a loro una qualità della vita al di là del fatto che nella loro vita sono arrivati a compiere degli atti così distruttivi.
Per rendere più efficiente il sistema della sicurezza, dare più qualità ai tessuti urbani, relazionali e affittivi, bisogna occuparci delle recidive dei comportamenti violenti e dedicare le nostre energie anche all’intervento sul violento.
I casi sono tanti. Da 12 anni abbiamo avviato nel carcere di Bollate un’unità di trattamento intensificato, ogni anno 30 detenuti firmano un contratto per sottoporsi a un percorso trattamentale. Abbiamo trattato 248 autori di reati sessuali, e, purtroppo, ci sono stati 9 casi di recidiva. Sebbene un dato negativo per le vittime, è un dato in termini di efficienza perché corrisponde a un 2-3% di recidiva che di solito è riconosciuto come un dato ottimale a livello internazionale.
Trattiamo in un servizio esterno del comune di Milano, collegato al lavoro in carcere e con la magistratura e la procura della Repubblica. Un servizio che prende in carico gli autori di violenza con 4 gruppi settimanali, sia gli autori di violenza domestica che sessuale. Dal 2009, da quando è attivo, abbiamo avuto circa 350 persone in trattamento. È importante il sistema attivato che dà delle risposte, anche se rimangono ancora isolate in poche realtà. Non è escluso che si possa fare anche ad Imperia. Abbiamo questo servizio presidio criminologico territoriale che ci dà molte soddisfazione perché fa vedere quanto queste persone abbiano bisogno di confrontarsi e di essere accompagnati sul territorio per reinserirsi, nonostante la problematiche”.
Ci può raccontare di un caso particolare?
“Un ragazzo che ho conosciuto nel 2002 nel carcere di San Vittore aveva commesso reati seriali su donne, aggredendole in vagoni vuoti dei treni, era arrivato a livelli di violenza molto grave. Diventò un problema di ordine pubblico. Venne intercettato, si fece quasi arrestare. L’ho seguito a San Vittore e poi nel 2005 quando è partito il progetto di Bollate è stato inserito nell’unità. Dopodiché è stato così in grado di aderire al percorso trattamentale che qualche anno dopo è venuto ad aiutare gli operatori come Peer supporter, rientrando in carcere a raccontare la sua esperienza di trattamento e aiutando gli altri ad essere più motivati a fare il percorso trattamentale. Questa persona è ancora in trattamento, nonostante non abbia più obblighi di pena, tutte le settimane ai gruppi esterni al presidio. Probabilmente non smetterà mai di avere un problema, ma questo problema è gestito e ha un riferimento dove farsi aiutare”.