23 Dicembre 2024 21:04

23 Dicembre 2024 21:04

Imperia: l’avvocato Eva Rocca da anni si batte contro la violenza sulle donne. “Va trovato il coraggio per denunciare, per me ormai è una missione”/L’intervista

In breve: L'avvocato Eva Rocca, 41enne, dal 2009 impegnata in casi di violenza e maltrattamenti, racconta a ImperiaPost la sua esperienza nelle aule del Tribunale.
avvocato-violenza-donne

Sono quasi 10 anni che è stata istituita la Giornata mondiale contro la Violenza sulle Donne, un’occasione per portare all’attenzione mediatica una piaga della nostra società, che fatica a essere debellata.

Spesso, in questi casi, si racconta di uomini mostri e donne deboli, di sofferenza e di vendette. Per spronare le persone a chiedere aiuto, a denunciare e a cominciare una nuova vita, bisognerebbe però raccontare il più possibile storie di donne vincenti, di donne felici e realizzate, che hanno superato la paura e hanno vinto la battaglia.

È questa l’opinione dell’avvocato imperiese Eva Rocca, 41enne, dal 2009 impegnata in casi di violenza e maltrattamenti.

Eva Rocca ha raccontato a ImperiaPost cosa significa combattere ogni giorno al fianco delle donne.

Giornata mondiale contro la violenza sulle donne: l’avvocato Eva Rocca

“Nel 2009 ho iniziato a dare consulenze al Centro Antiviolenza di Imperia per 6 anni come unico legale consulente racconta – Attraverso questa esperienza ho avuto la possibilità di incontrare una moltitudine di donne provenienti dai più svariati ceti sociali e delle più diverse etnie. Molte donne me le sono portate avanti, mi hanno scelto come difensore in molti processi, terminati positivamente. Lì ho imparato la prima regola: quando una donna si presenta al centro antiviolenza è perché vuole togliersi da questo vivere male.

Terminata la mia attività al centro antiviolenza di Imperia, ho intrapreso l’attività puramente privatistica. Attualmente mi continuo ad occupare di donne nel territorio dell’imperiese.

Ancora oggi quando vengono a bussare alla porta è perchè effettivamente hanno deciso di mettere fine ai maltrattamenti. Devono venire di persona per rendersi conto, parlando, che la situazione è grave e che deve essere assolutamente corretta”.

Cosa succede quando una donna decide di rivolgersi a un centro antiviolenza o a un avvocato?

“Dipende dalla persona che hai di fronte. Bisogna fare delle consulenze preliminari prima di consigliare di fare una denuncia, con il supporto di psicologi. È una componente essenziale. 

Sono donne che spesso sono maltrattate da anni, quindi per prima cosa bisogna far capire che la violenza non era legata a una loro colpa. È insito in ogni donna il pensiero di dire ‘se non avessi detto…’, ‘se non avessi fatto…’. Una volta tolta questa corazza, riescono a raccontarsi di più di quello che avevano raccontato, si acquista fiducia nel difensore”.

Ci sono elementi che accomunano le donne vittime di violenza?

“Il ceto sociale conta poco, ho incontrato anche tante donne benestanti e lavoratrici che hanno subito violenze. 

Quello che le accomuna è solitamente l’insicurezza e la speranza di aspettare che il tempo sistemi le cose o che l’arrivo di un figlio faccia migliore il rapporto. Il figlio viene usato spessissimo come uno strumento per poter cambiare. In realtà peggiora. 

L’età è variegata. Ci sono sia ragazze molto giovani, 20-25 anni, ma anche donne di 60 anni, che mi hanno raccontato di matrimoni magari durati 30 anni dove però hanno sempre subito violenze.  Spesso il maltrattante fa abuso alcol o è insoddisfatto del lavoro. Spesso nelle relazioni lunghe c’è la sindrome “cambierà“, ma le persone non cambiano, anzi spesso peggiorano con il tempo”.

Essere lei stessa donna è un vantaggio o uno svantaggio?

“Essere donna sicuramente ha avvantaggiato le clienti. È più facile raccontare ad una donna che a un uomo perchè ci si capisce anche di più.

Allo stesso tempo, specialmente all’inizio del mio percorso, è difficile non farsi coinvolgere e trovare la giusta distanza. Si riesce ad affrontare meglio i casi con il tempo e l’esperienza. All’inizio ero più coinvolta perchè effettivamente erano casi gravi, cruenti e fastidiosi ed essendo donna anche io potevo immedesimarmi. Questo capita ancora. Con il tempo però ho capito che devo dividere le due cose per essere lucida e precisa. Quando entro in aula mi trasformo.

Essere un avvocato donna rende più facile per le clienti aprirsi. Specialmente per quanto riguarda l’aspetto sessuale, componente che viene frequentemente celata perchè ci si vergogna.

In molti processi, ho avuto delle clienti che, oltre a subire delle violenze psicologiche e fisiche dal marito, subivano anche questo tipo di violenza. All’interno di una relazione di matrimoniale o di convivenza, questo aspetto viene visto quasi come una cosa normale, come se fosse dovuto. 

Una volta arrivati alla denuncia o all’applicazione di una misura cautelare, stai davvero aiutando quella persona”.

È cambiato l’ambiente giudiziario in questi anni?

“Dal 2009, il periodo in cui è nata la nuova norma sul femminicidio, i magistrati si sono mostrati sempre più sensibili al fenomeno. C’è una norma del codice che ci dice che le dichiarazioni della persona offesa valgono come una prova, non c’è bisogno di ulteriori dimostrazioni.

Spesso si tratta di reati che avvengono all’intero delle mura domestiche e quindi una delle paure delle mie assistite è che ‘la mia parola vale quanto la sua’. In verità non è proprio così, perchè le dichiarazioni, supportate anche da psicologi, sono una prova”.

Qual è il freno più grande che impedisce alle donne di denunciare?

“Sicuramente c’è una paura tremenda della ritorsione che può avere il compagno o il convivente, e la poca fiducia nella legge. Tutti i giorni purtroppo sentiamo al telegiornale casi di donne che, nonostante le denunce, vengono uccise.

Il problema è che le norme esistono, ma bisogna conoscere molto bene questa materia in ogni sfaccettatura.

Ad esempio, quando si presenta da me una donna che non ha ancora presentato una denuncia o una querela, posso valutare, se si tratta di un soggetto maltrattante non pericoloso, che un ammonimento potrebbe essere sufficiente, come deterrente. 

Se capisco che invece è pericolo, non sto a perdere tempo a fare l’ammonimento, faccio immediatamente la querela e chiedo al Gip l’applicazione delle misure, che sono l’allontanamento dalla casa familiare o il divieto di avvicinamento.

Si tratta di una materia talmente particolare, che deve essere conosciuta in tutte le sue sfumature. Ci si deve saper muovere in Tribunale e accompagnare passo dopo passo le donne. Così facendo sono sempre riuscita a ottenere il meglio per loro”.

Fondamentale anche l’aspetto psicologico.

“Sì, l’aspetto psicologico è essenziale. C’è bisogno di una psicologa durante tutto il percorso. Affrontando il processo le donne sono distrutte per una moltitudine di ragioni e hanno bisogno di un supporto psicologico, che le aiuti anche a rassicurare se stesse, a rassicurare gli eventuali i figli, perchè spesso parliamo anche di violenza assistita”.

Sono aumentate le persone che denunciano negli ultimi anni?

“Secondo me si. Specialmente aumentano le richieste di consulenze pre attività. Quando terminano i processi, è una grande soddisfazione per me. Vedo donne piangere di gioia, contente, incredule che finalmente ce l’hanno fatta. 

Purtroppo spesso durante le manifestazioni o nelle ricorrenze, la donna viene sempre vista solo come vittima. Bisognerebbe cominciare a cambiare quest’ottica e farla vedere invece come vincente. Bisogna dare speranza. Noi dobbiamo vedere delle donne che vincono, che ce la fanno, per dare forza a coloro che non riescono ancora a denunciare.

L’esito del processo serve anche da deterrente per altri casi. È fondamentale sia nei confronti dell’autore del reato che si renda conto che alla fine le condanne ci sono e arrivano a tutti, sia per altre donne che possono usarlo come esempio”. 

Un caso che ricorda con passione?

“Recentemente ho chiuso in Corte di Appello una causa per maltrattamenti in famiglia a Imperia che avevo già vinto in primo grado a Imperia, confermando in pieno la sentenza.

Il maltrattamento alla moglie è durato per 15 anni di matrimonio. Durante quel periodo è nato anche un bambino, nella speranza che le cose potessero migliorare, ma sono peggiorate.

Il marito ha cominciato anche a fare abuso di alcool. Lei ha vissuto degli anni lunghissimi in cui ha sofferto. L’episodio maltrattante non è solo schiaffo o calcio, ovvero il momento più grave quando c’è la violenza fisica, ma è anche la violenza psicologica, l’insulto, la denigrazione.

Bisogna anche fare in modo che i giudici imparino ad essere sensibili anche a questo. Frequentemente le controparti tendono ad affermare che non c’è stata violenza perché non ci sono mai stati schiaffi, quando per 10-15 anni è stata tutti i giorni succube del marito con offese e insulti. Anche quella è violenza. Questo presuppone una conoscenza molto approfondita della normativa”.

Spesso anche i bambini rimangono coinvolti nei maltrattamenti?

“Assolutamente sì. Spesso i figli sono presenti durante gli episodi maltrattanti e tendono poi a imitare quello che vedono fare fuori e dentro casa, diventando violenti con i compagni di scuola e con la madre stessa.

È un aspetto molto delicato, perché i bambini assorbono come spugne e rischiano di diventare a loro volta in futuro soggetti maltrattanti, quindi vanno seguiti psicologicamente da subito”.

Un appello a quelle donne che non trovano il coraggio di chiedere aiuto?

Le norme ci sono. Aspettare che le cose cambino da sole non porta a niente. Bisogna denunciare per non dare altro spazio ai soggetti maltrattanti di agire, perché da episodi maltrattanti e violenti al femminicidio c’è un passo breve. Non bisogna pensare che possa succedere sempre agli altri.

Una cosa importante: non si va mai all’ultimo appuntamento chiarificatore. Tante volte mi è capitato di sentire dalle mie clienti che sarebbero andate dall’ex marito a parlare “una volta per tutte” o per “chiarirsi finalmente”. Ingenuamente si pensa che il proprio ex non arriverebbe mai a tanto. Invece succede“.

Lei è anche presidente dell’associazione Penelope Liguria Onlus.

“Sì. Ritengo che ci sia una forte connessione tra donne scomparse e femminicidio. Spesso casi di scomparse, inizialmente considerati allontanamenti volontari, si sono poi rivelati femminicidi. È un aspetto da prendere in considerazione. Ci sono tanti casi insoluti anche nel territorio ligure. Ho deciso di intraprendere anche questo percorso perché per me è ormai una missione”.

Condividi questo articolo: