23 Novembre 2024 00:13

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23 Novembre 2024 00:13

Un’imperiese in Palestina: il terzo report di viaggio di Susanna Bernoldi, coordinatrice Aifo. “Violenza gratuita su bambini e ragazzi”/Le immagini

In breve: L'imperiese Susanna Bernoldi, coordinatrice Aifo, si trova da alcuni mesi in Palestina per aiutare la popolazione, devastata da continui conflitti.
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L’imperiese Susanna Bernoldi, coordinatrice Aifo, si trova da alcuni mesi in Palestina per aiutare la popolazione, devastata da continui conflitti.

Per far conoscere quella realtà anche a chi non si trova sul posto, Susanna ha deciso di realizzare dei report in cui racconta tutto ciò di cui è testimone in questa esperienza.

L’esperienza in Palestina di Susanna Bernoldi

Ecco il terzo Report

E’ DIFFICILE!

Ogni violenza è dura da accettare, ma essere testimoni diretti di violenza gratuita su bambini, soprattutto sapendo che questa è una quotidianità impunita, perché è la stessa autorità (l’occupante in questo caso) che la compie, è proprio tanto difficile! Ancor più se volutamente ignorata dai media!

Quattro giorni fa: nei due quartieri vicini di Qeitun e Salaymeh, Hebron H2, sempre nell’aerea della Moschea Ibrahim, all’uscita dalla scuola i ragazzini hanno risposto alla provocazione dei soldati con il lancio di pietre e i soldati ne hanno arrestati tre, catturati a caso (tra gli 11 e i 13 anni). Il Parlamento israeliano ha approvato la legge che condanna fino a 20 anni per questo reato… Per fortuna sono stati rilasciati entro un’ora, ma il trauma della cattura rimane: uno dei piccoli, che ho ritrovato nel suo incontro con un operatore dell’Ufficio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, Munther Adhami, ha ora la fobia dei soldati: ottimo risultato raggiunto dai militari. E’ quello che vogliono, scardinare la forza e il coraggio di questi bambini.

Ma il giorno dopo è stato per me molto più pesante, perché l’assalto ai bambini è stato fatto a pochi metri da me: erano le 13 e militari della Border Police, chi con gli M16, chi con i fucili pronti a sparare i lacrimogeni, sono entrati nel quartiere di Qeitun che inizia subito dopo il check point, mentre vi era la calma più assoluta. Si sono piazzati ben visibili alla gente, hanno iniziato a fermare le auto, a ispezionare vie laterali: una provocazione troppo evidente che ripetono ogni giorno e notte entrando nei giardini, nelle case, salendo sui tetti per trovare posizioni strategiche di osservazione e per i cecchini.

In fondo alla via hanno cominciato a radunarsi i giovanissimi studenti appena usciti da scuola che però non hanno minimamente reagito, solo qualche fischio. Vedendo che non avevano appigli per attaccare, i poliziotti (più aggressivi dei soldati, che possono procedere all’arresto immediato), hanno deciso una strategia che ritengo vergognosa per il contesto in cui erano: tre di loro sono corsi lungo una salita laterale decidendo di accerchiare i bambini. Subito ho pensato che volessero andare ad appostarsi su un tetto come fanno solitamente, ma poi, non vedendoli comparire in cima ad alcuna casa, mi è venuto il dubbio e ho iniziato a scendere verso i ragazzini per avvisarli che rischiavano di essere colti di sorpresa. Quando ero a neanche 10 metri da loro è successo: i tre militari sono sbucati da una viuzza laterale e si sono letteralmente lanciati sui bambini che, facendo assolutamente nulla, non si aspettavano violenze da parte dei soldati.

E’ stato quindi un giochino catturare le prede. Si, uso questa parola perché ho visto l’aggressività, la violenza nel loro saltare addosso ai bambini: occasione di una bella esercitazione di guerriglia contro chissà quale nemico. Ne hanno catturato uno a testa e li tenevano bloccati a terra. Ho fatto appena a tempo a scattare due foto (una di queste è quella con il logo ISM, perché utilizzata anche da altri siti) e mi sono lanciata sul soldato nel tentativo di liberare il bambino che avevo più vicino a me. Niente da fare: il poliziotto lo teneva con una tale presa del braccio sinistro per me impossibile da sciogliere, mentre con il destro ricacciava ogni mio tentativo.

Una volontaria del CPT (Christian Peace Team) cercava a sua volta di liberarne un altro, ma ci troviamo di fronte a ragazzi allenati, forti e soprattutto con la convinzione di avere tra le mani chissà quale pericoloso terrorista. E tra l’altro, ogni volta che chiedo loro spiegazioni sulla loro violenza, rispondono che loro sono lì, così armati per difendere i civili! Li abbiamo seguiti, noi volontari, i maestri, cercando di convincerli a liberarli, dicendo loro che stavano violando le leggi internazionali, filmando, dicendo loro l’assurdità della cattura, ma niente. I poliziotti sono spariti dentro al check point, poi hanno portato i bambini al Centro di Polizia. Due di loro: 11 e 13 anni, sono stati rilasciati in un’ora. Il terzo, di 14 anni, no. Il no significa che – a detta del Direttore della Scuola – sarà probabilmente incarcerato per 6 mesi (detenzione amministrativa) senza alcuna accusa, in una prigione che è tenuta celata ai genitori, senza poter parlare con un avvocato o familiare.

La detenzione amministrativa può essere prorogata indefinitamente o interrotta – alle volte – dietro il pagamento di ingenti somme da parte dei genitori che fanno di tutto pur di sottrarre i loro figli alle torture fisiche e psicologiche alle quali possono essere sottoposti. Infatti a fine novembre, con una sentenza che viola direttamente il Diritto Internazionale e le convenzioni contro la tortura, (sentenza assolutrice per gli agenti segreti che hanno torturato Fares Tbeish) l’Alta Corte israeliana ha legalizzato l’uso della tortura. Chi ancora può ritenere Israele una democrazia?

Troppe volte si dimentica che la Convenzione di Ginevra ha sancito che il paese occupante ha il dovere di proteggere il popolo occupato e, nel caso l’occupante usi violenza nei confronti di quest’ultimo, il popolo vittima ha il diritto di resistere!

Da sempre accade che, se chi resiste è dalla parte “giusta” della storia, è chiamato partigiano e lodato, se è dalla parte “sbagliata”, è definito terrorista. E chi ha ha in mano i media, ha un potere immenso e può convincere le masse di qualunque cosa.

Ieri siamo tornati alla scuola e parlato con il Preside e alcuni insegnanti: abbiamo visto le tantissime foto che il Direttore ha esposto a testimonianza delle violenze subite dagli studenti negli ultimi due anni: incursioni dei soldati nella scuola, lancio di lacrimogeni nel cortile, casi di soffocamento. Il terrore. Mi tornano alla mente le parole di Eran Efrati, l’ex soldato israeliano che, disgustato di ciò che è stato costretto a fare nei tre anni di servizio militare, è ora un testimone di Breaking the Silence: “ho capito che noi non avevamo il compito di proteggere i civili israeliani, ma unicamente di terrorizzare i civili palestinesi” (video indicato nel precedente report).

Ora non ho più bisogno di altre testimonianze:
ho quella che mi si è impressa nella mente e nel cuore.

Ma ho anche un altro ricordo estremamente vivido: se negli occhi del bambino a terra vi era il terrore, in quelli di uno dei soldati che fin dall’inizio aveva atteggiamenti di grande nervosismo, vi era paura: dopo l’arresto, sentendo fischi e urla di protesta della gente che rimaneva comunque in fondo alla strada, ha corso, con un altro militare, verso di essa e ha lanciato granate sonore. Fanno un fragore devastante: bisogna cercare di correre lontano prima della loro esplosione perché possono essere molto dannose per l’udito, oltre alla paura che generano.

Condivido appieno le parole di Badee Dwaik, responsabile di Human Rights Defender di Hebron: “Che cosa rimane ai nostri bambini della loro fanciullezza?!? Che cosa rimane a questi soldati della loro umanità? Credo l’abbiano persa”. Si spiegano così i suicidi di giovani ex soldati che non reggono al ricordo di ciò che hanno compiuto su civili inermi.

Ho fatto fatica a digerire l’assoluta gratuità della violenza, così come mi fa male veder ridere i soldati quando si apprestano a lanciar bombe sonore o sparare i lacrimogeni: per loro è un’esercitazione, mentre per il popolo palestinese è la distruzione della loro quotidianità.

Desidero condividere ora un’altra emozione forte: domenica 1 dicembre ho partecipato alla Marcia di protesta, organizzata dagli attivisti dell‘Hebron Defence Commettee, delle famiglie che chiedono di riavere i corpi dei propri cari uccisi per strada, ai check point, morti in prigione a causa delle torture. Tanti i partecipanti: genitori, sorelle e fratelli delle vittime delle forze di occupazione che marciavano con le foto dei loro cari. Nelle celle frigorifere israeliane sono ancora trattenuti 27 corpi dal 2016, ma sono centinaia i corpi trattenuti dal 1967 ai quali le famiglie non possono dare sepoltura.

Trattenuti in celle frigorifere o, ancor peggio, sepolti in quelli che gli Israeliani chiamano i “cimiteri dei numeri”! Ve ne sono sei in Israele: corpi di prigionieri palestinesi seppelliti in violazione alle stesse norme nazionali oltre che alle leggi internazionali, senza un nome, ma solo un numero, senza alcuna segnalazione alle famiglie che attendono, distrutte dal dolore per non sapere, avvinghiate a una speranza sempre più flebile negli anni, ma che resiste.
Ci si chiede perché? E’ una punizione collettiva vergognosa contro la quale si schierano le risoluzioni ONU, le associazioni umanitarie internazionali e locali, le famiglie che non si arrendono e chiedono un diritto sacrosanto. Ma la democratica Israele procede nei suoi crimini indifferente.

Questa ulteriore umiliazione inflitta ai familiari risponde al diktat di Ben Gurion (1948) di rendere talmente dolorosa la vita dei Palestinesi nella loro terra, da indurli a partire, ma se si vuole trovare altro, si scopre che Israele è il primo paese al mondo per traffico di organi. Varie denunce pubbliche a partire dal 2008, colti in fragrante esponenti israeliani per il traffico dal Brasile. Oggi l’asse Israele-Ucraina è la più potente con budget da capogiro. Le denunce iniziarono nel 2009 ed è importante, tra le altre, la dichiarazione dell’ambasciatore palestinese all’ONU Riyad Mansour che nel 2015 rivelò che “un esame medico condotto sui corpi dei Palestinesi restituiti dopo un lungo tempo dopo essere stati uccisi dall’esercito occupante israeliano, ha trovato che essi mancavano di organi confermando ulteriormente i report del passato sulla sottrazione di organi da parte del regime israeliano”. Nessuna denuncia da parte dei Paesi occidentali per questo crimine orrendo?
In internet, è sufficiente scrivere traffico di organi Israele e trovate nomi e date precisi delle denunce,arresti,ecc.

Chiudo condividendo una bellissima emozione. Ho conosciuto una persona fantastica: Mansur, 87 anni, un sorriso dolcissimo, la kefyah che gli scende elegantemente sulle spalle, che cammina curvo appoggiandosi a due stampelle.

E’ una delle vittime – per fortuna “solo” ferito – del pazzo ebreo estremista Goldstein, che nel 1994 entrò nella moschea di Ibrahimi, a Hebron e uccise 29 uomini in preghiera! Lui, prono sul tappeto, fu colpito da un gran numero di proiettili ad entrambe le gambe. Ha una placca metallica nella gamba destra che comunque gli si è accorciata di 7 cm e lo costringe a usare una scarpa ortopedica, Ci ha mostrato le cicatrici delle varie pallottole e il piede sinistro che ha perso la sensibilità.

Racconta la strage senza acredine, lui già vittima, a 15 anni, della Nakba, quando fu costretto, con la famiglia, ad abbandonare il suo villaggio di Ajjur, a sud di Gerusalemme: 4.330 abbitanti che allora vivevano serenamente con i raccolti di grano e olive. Si rifugiarono a Hebron.

Ci ha mostrato con una gioia grande un pugno della sua terra raccolta recentemente quando nel periodo del Ramadan gli è stato concesso anche se per poche ore, di tornare nel suo villaggio dopo 70 anni!!! prima e unica volta!
Ha baciato quella manciata di terra e pietre e i suoi occhi brillavano di una luce infinita, erano pieni del cielo, del sole, degli alberi del suo villaggio… esprimevano una felicità profondae ci siamo ritrovati tutti con gli occhi pieni di lacrime. Un momento indimenticabile.

.. Anche per questo amo questo popolo e voglio, con loro, sperare nella fine di questa occupazione violenta”.

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