“Mi trovavo a una manifestazione non violenta e i soldati israeliani mi hanno colpito alla coscia con un proiettile di gomma. Sono stata fortunata, ma è un segno che dimostra che attaccano sempre di più gli internazionali”. È questo solo uno degli episodi di cui Susanna Bernoldi, 65enne imperiese, coordinatrice AIFO e volontaria ISM, è stata testimone nel suo ultimo viaggio in Palestina.
Curiosa per natura e decisa a dare il suo contributo in ogni causa in cui crede, Susanna ha deciso di andare a toccare con mano i drammi che stanno vivendo il popolo palestinese.
Al suo ritorno, Susanna ha raccontato la sua esperienza a ImperiaPost.
Un’imperiese in Palestina: la storia di Susanna Bernoldi
Perché ha deciso di andare in Palestina?
“I miei viaggi in Palestina nascono dalla volontà di conoscere in prima persona la problematica di quei luoghi e di quel popolo. Il desiderio è nato dopo quasi 35 anni di esperienza come volontaria in diversi paesi dell’Africa, in India e in Sud America, oltre ovviamente all’Italia.
Ho sempre avuto l’abitudine di andare direttamente sul posto per rispondere alle mie domande. Amo viaggiare, andando a calpestare la terra che calpesta la gente normale, vivendo in mezzo alle persone del posto.
Così, ho deciso di andare in Palestina, prima con “Pax Christi”, poi da sola con un’amica, e infine, lo scorso novembre, come volontaria ISM (International Soladirity Movement), movimento di cui facevano parte anche Rachel Corrie e Vittorio Arrigoni”.
Come ha iniziato il suo percorso da volontaria?
“Mi sono avvicinata all’AIFO circa 35 anni fa, quando si occupava specialmente di lebbra. Dopo la prima esperienza in Tanzania nel ’90, ho quindi chiesto di andare in un lebbrosario, perché non avrei potuto parlare di un dramma senza conoscerlo. Sono andata al lebbrosario al Cairo, lì ho imparato a stare con i malati, a curarli. Ho fatto questa esperienza condividendo la vita con i malati di lebbra.
Dopo tutte queste esperienze, ho capito che spesso i fatti si possono sapere solo se si va a vederli con i propri occhi. Allo stesso tempo, le informazioni, se si vogliono trovare, online si trovano”.
Cosa faceva in Palestina?
“Il principale obiettivo dei volontari ISM è quello di documentare. Quindi noi eravamo “armati” solamente di macchina fotografica e telecamera, per essere testimoni della violazione dei diritti umani che si sta verificando ai danni del popolo palestinese. Non andiamo per aiutare, ma per condividere momenti di paura, rabbia, gioia.
Siamo stati nei villaggi a conoscere le persone, a farci raccontare le loro storie, capire i loro drammi.
Assistevamo alle violenze dei soldati israeliani e dei coloni, cercando di fare “interposizione”. Partecipavamo alle manifestazioni rigorosamente non violente.
Nell’ultima esperienza sono stata in molti posti, in particolare a Hebron, Ramallah e Kafr Qaddum, Nablus, Gerusalemme“.
Qual è la situazione che ha trovato?
“È drammatica. La Corte Suprema Israeliana ha legalizzato la tortura, ha legalizzato gli omicidi dei soldati nelle manifestazioni. Nei giorni in cui mi trovavo in Palestina, è arrivata la notizia dell’uccisione a Gaza di un bambino di 4 anni, a cui hanno sparato in un occhio e all’addome, e dell’aggressione a un’infermiera mentre soccorreva un ferito, a cui hanno sparato alla schiena.
Israele ha 3 giustizie, una civile per gli israeliani, un tribunale militare per i palestinesi e una giustizia burocratica per i migranti”.
A Kafr Qaddum è stata colpita da un proiettile di gomma. Cosa è successo? Perché si trovava lì?
“Eravamo a Kafr Qaddum, un paese a nord della Palestina, sopra Nablus. Lì, nel 2003 una colonia illegale ha imposto la chiusura della strada che collegava il paesino alla grande città, luogo dove i palestinesi lavorano, studiano, fanno la spesa. Da quel giorno gli abitanti di Kafr Qaddum per raggiungere Nablus devono fare una strada lunga 44 km, mettendoci molto più tempo e con costi più elevati. Senza contare l’umiliazione.
Nel 2011 si è costituito un comitato non violento che ogni venerdì, dopo la preghiera nella moschea, si riunisce e, insieme anche agli internazionali, con manifesti, bandiere e megafoni, esce dal villaggio e avanza verso la barriera di chiusura della strada, dove ci sono le torrette in cemento dei soldati armati.
I soldati, vedendo i manifestanti avanzare iniziano a lanciare bombe sonore, che possono causare sordità se cadono vicine, lacrimogeni, terribilmente fastidiosi, e dopodiché cominciano a sparare con i proiettili foderati di gomma, che, se ti colpiscono al petto o in faccia possono uccidere, fino ad arrivare a proiettili veri e propri.
Quel giorno, io ero in mezzo ai manifestanti. A un certo punto stavo dando le spalle al cancello. I soldati, forse per spaventarmi, mi hanno sparato un proiettile di gomma colpendomi alla coscia. Io mi sono girata e ho fatto segno “ok”. Dopodiché mi hanno portato sull’ambulanza per medicarmi. Per fortuna non ho avuto conseguenze, ma è stato il messaggio a preoccupare. È stata la conferma che i soldati stanno iniziando a colpire anche gli internazionali, disattendendo tutte le regole, sapendo di essere completamente impuniti”.
Ha detto che è stata legalizzata la tortura in carcere, com’è la situazione quindi? Si verificano suicidi?
“I palestinesi che finiscono in carcere, spesso in “detenzione amministrativa”, anche solo con l’accusa di aver cospirato contro il governo, rischiano di non uscire più e sono soggetti a torture, finchè non confessano anche cose non vere. Si potrebbe pensare che, quindi, siano frequenti i suicidi dei detenuti palestinesi.
Invece, i palestinesi non si suicidano. Al contrario, si suicidano i soldati israeliani. L’ultimo dato è di 2 suicidi ogni 15 giorni, ragazzi dai 18 ai 21 anni, dovrebbe far riflettere. Si tratta di giovani che sparano a bambini, a ragazzine, a medici che tentano di soccorrere i feriti”.
È stata testimone anche di tipi di armi particolari?
“I soldati sono armati come dei “robocop”. Fanno impressione, specialmente quando se la prendono con bambini fuori dalle scuole, donne, anziani disarmati. Oltre le armi classiche, stanno iniziando a sperimentare cose nuove. In particolare, c’è la “Skunk water”, un’acqua ideata da un israeliano nel 2008, che puzza di cadavere, urina e feci. Se ti colpisce, gli abiti li butti via, ma la puzza non va via facilmente. La buttano anche nelle case, impregnando i muri e i mobili. Impossibile da far andare via del tutto.
Se non ti lavi a sufficienza, la puzza rimane per molto tempo, ti segna, ti isola, è un’umiliazione pubblica. Inoltre, viene rilevata da dei detector in aeroporto, e dunque significa che hai partecipato a una manifestazione con il popolo palestinese e rischi di entrare nella “black list”.
Quando è stata a Ramallah cosa è successo?
“Io ero dentro la manifestazione pacifica in centro. A un certo punto si è venuto a sapere che, nel frattempo, fuori dalla manifestazione, i soldati a bordo di una gip avevano sparato in testa a un uomo di 58 anni che si trovava nella sua auto, giustificandosi dicendo che l’automobilista sarebbe stato intenzionato ad attaccarli, restando totalmente impuniti. Quando è arrivata l’ambulanza hanno impedito i soccorsi, facendolo morire dissanguato.
Queste situazioni si ripetono ogni giorno, da anni. Nel dicembre 2017, l’ho vissuta in prima persona. Ero in Palestina e, l’ultimo giorno, avevo deciso di regalarmi una passeggiata nel Souk a Gerusalemme est, mentre tornavo verso la porta di Damasco, vedo dei soldati correre. Dopodiché ci hanno bloccato con le transenne, spintonandoci, non facendoci passare per 40 minuti. Alla fine, hanno riaperto la strada e sono arrivata in uno spiazzo dove sono sempre appostati i soldati. Quando sono arrivata ho visto che un uomo stava pulendo del sangue. Così ho chiesto alle persone presenti e mi hanno spiegato che un soldato ha “avuto il sospetto che un ragazzo volesse assalirlo” e così lo ha riempito di colpi di arma da fuoco e ha impedito ai soccorritori di assisterlo”.
Secondo lei, c’è qualche speranza per il futuro perché finiscano queste violenze?
“I giovani israeliani crescono nella paura e nell’odio e disprezzo del popolo palestinese. Credono di essere nel giusto.
Io cerco sempre di parlare con i soldati. Loro sono le prime vittime di questo governo criminale. Se fai crescere le generazioni nell’odio distruggi le vite. Per che cosa? Per il potere. Purtroppo è un problema politico.
Una volta dei soldati ci hanno fermato impedendoci di andare ad aiutare dei contadini che raccoglievano le olive, con la scusa che fossimo in un’area militare. Allora noi ci siamo fermati, continuando a filmare e fotografare. A un certo punto, mi sono avvicinata a un giovane soldato di colore, di origine etiope, quindi considerato un cittadino di “terza categoria” in Israele.
Mi sono messa dolcemente a chiedergli: “Perché stai opprimendo il popolo palestinese, tu stesso che sei oppresso”. Lui mi ha risposto: “Non è vero non siamo oppressi”. Io continuavo a parlargli con calma, finchè è intervenuto un superiore che mi ha allontanato. Dopodiché è successa una cosa particolare. Dalla collina è scesa un’orda di coloni, alcuni armati, lanciandosi addosso ai contadini che stavano raccogliendo le olive. I soldati per un po’ li hanno lasciati fare, e chi è stato il primo a muoversi per intervenire? Proprio il soldato etiope. Io non so se è stato per ciò che gli ho detto, credo che fosse per l’umanità che gli è rimasta.
Cosa succederà in futuro? Io devo essere positiva, devo crederci per rispetto ai palestinesi. C’è chi ha visto demolirsi la casa dai bulldozer casa 3 o 4 volte, ma restano dicendo “Questa è la nostra terra e qua rimaniamo”. Per questo devo crederci”.
Non ha paura di ripercussioni?
“Sono convinta che non è coraggioso chi non ha paura. Credo di fare solo il mio dovere. Se mia figlia o mio figlio vivesse in quella situazione vorrei che tutto il mondo si rivoltasse. Certo, la mia paura è che non mi facessero più entrare, ma anche in quel caso fare cento volte più sforzi da qui.
Quello che fa male è essere spettatrice di violenze. Ogni vita è sacra, solo se ci salveremo insieme, l’uomo, gli animali e la natura, il pianeta potrà sopravvivere.
Mi lascio guidare dalle parole di Follereau, che dice:”Fino a che ci sarà una sola persona che soffrirà la fame, il freddo o un’ingiustizia, noi non abbiamo il diritto di tacere o di riposarci”.