Condannato a 4 anni e 6 mesi di carcere. È questa la sentenza pronunciata oggi, in Tribunale a Imperia, dal collegio composto dai giudici Donatella Aschero, Laura Russo e Marta Maria Bossi (PM Lorenzo Fornace), nell’ambito del processo che vedeva sul banco degli imputati un noto imprenditore imperiese, accusato di bancarotta fraudolenta e falso, a seguito del fallimento di una società (avvenuto nel 2009) di cui era, secondo l’accusa, “amministratore di fatto”.
Bancarotta fraudolenta: imprenditore condannato a 4 anni e 6 mesi di carcere
L’uomo, difeso dall’avvocato Antonio Lerici del foro di Genova, è stato condannato a 4 anni e 6 mesi di carcere e al pagamento di una provvisionale di 100 mila euro.
Il legale ha già annunciato l’intenzione di presentare ricorso in Appello.
Nel corso delle scorse udienze, il Pubblico Ministero Lorenzo Fornace aveva chiamato a testimoniare il curatore fallimentare della società, il commercialista Achille Fontana, che ne ha ricostruito la storia contabile, in particolar modo le cause che hanno portato il Giudice Ottavio Colamartino, il 17 giugno del 2009, a dichiararne il fallimento. All’origine del crack finanziario un’operazione commerciale poi sfociata in un procedimento penale per truffa conclusosi con il patteggiamento dell’imprenditore.
La deposizione del Curatore fallimentare Achille Fontana
“Si è trattato di un fallimento strano – aveva spiegato il curatore fallimentare Fontana – perché la società è fallita pur avendo dichiarato redditi. Durante il mio lavoro ho trovato l’amministratore unico della società, che però non era socio, e l’unico socio era la signora M.T.C. di Albenga, totalmente estranea alla vita sociale.
Poi, in un secondo momento si è dichiarato amministratore della società. G.P. non conosceva neanche i rudimenti minimali della Srl, ho scoperto che era un ex dipendente di una società che gestiva Bmw come magazziniere.
La nascita del fallimento è di nuovo atipica, perché a seguito della richiesta di un creditore e non di un fornitore. Nel dettaglio si trattava di una società giapponese che acquistò delle moto e le pagò tutte in anticipo con un bonifico telegrafico di 457 mila euro.
La società fece una querela di truffa aggravata perché, insieme a un francese, ricevettero i soldi per le moto ma non le fornirono mai al cliente. Ricevettero l’acconto, ma quando i cinesi chiesero indietro i soldi, le somme non erano più disponibili sul conto della banca perché i denari erano stati utilizzati in altro modo. La società operava nella sede storica di Imperia anche se verso la fine della sua attività ebbe una sede a Milano e tra i documenti trovati c’è anche un contratto di locazione che era stato firmato anche se l’interessato, in realtà, non ne conosceva l’esistenza.
La società agiva in affitto di azienda. Il 20 marzo del 2009 si risolse il contratto tra le due società. Secondo la mia attività di curatore l’operazione è stata svolta per pagare tutti i fornitori e le banche con cui la società era indebitata”.