23 Novembre 2024 23:50

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23 Novembre 2024 23:50

Imperia: “La mia lotta al Coronavirus”. Pietro, storia di un medico di famiglia. “A marzo non vedevo una fine. Mi sono commosso per una mascherina”

In breve: "La maggior parte delle persone vive in una bolla. Si lamenta di dover stare a casa. Questa bolla, ad un certo punto, quando il Coronavirus colpisce un tuo familiare o un tuo amico, si spacca".

Pietro Lavezzari, 39 anni, è un medico di famiglia. Ha 1.350 pazienti nell’entroterra di Imperia, in Valle Arroscia, e da due mesi lotta in prima linea contro il Coronavirus. Ha lasciato aperti i suoi quattro studi, a Pieve di Teco, Armo, Rezzo e Borghetto d’Arroscia per dare speranza e “un sostegno psicologico” ai propri pazienti. Ha lavorato giornate intere, senza mai fermarsi, per quasi due mesi, perdendo 8 kg.

ImperiaPost racconta la storia di Pietro, perché è significativa delle difficoltà incontrate dai medici di famiglia, lasciati soli, soprattutto nella prima fase dell’emergenza. Così soli da dover lanciare appelli sui social per riuscire a reperire una mascherina per dare assistenza a un paziente in più.

Partiamo da un suo post su Fb, datato 25 marzo. “Cerco disperatamente mascherine Ffp2 o meglio Ffp3, le ho finite tutte!”. Come si è potuti arrivare a questo?

“Noi medici di famiglia, in tutta Italia, non eravamo preparati al Coronavirus. Siamo stati travolti da questo tsunami. All’inizio non c’erano dispositivi di sicurezza. Guanti e mascherine non si trovavano da nessuna parte, neanche su internet. Io ero disposto anche a pagare prezzi folli pur di poter visitare i miei pazienti in sicurezza.

All’inizio mi sono dovuto arrangiare. Ho lanciato degli appelli su Facebook, ho anche fatto il giro dei carrozzieri. Mi sono dovuto barcamenare. Ho dovuto spesso centellinare le mascherine, le poche che avevo, tenendole per i pazienti più gravi. Mancavano anche gli igienizzanti. Mi sono dovuto comprare su Amazon, da Brico, da Self, tutti gli elementi necessari per produrre una soluzione disinfettante.

C’è stata, per fortuna, tanta solidarietà, tanta comprensione. Ho avuto un grosso aiuto da un’azienda di Pieve di Teco, la ditta Marchisio. Mi hanno regalato molte mascherine. Sono riuscito a lavorare con più tranquillità e le ho anche distribuite tra i miei colleghi. Alcuni di loro si sono commossi. Ne ho distribuite alla Croce Rossa, al personale Asl di Pieve di Teco e alla farmacia di Pieve”.

Ha parlato di solidarietà. C’è qualche episodio che le è rimasto impresso?

“Ricordo un giorno, circa un mese fa. Avevo utilizzato l’unica mascherina per una paziente sintomatica che non volevo abbandonare. Rimasto senza, mi sono messo alla ricerca di una nuova mascherina. Erano introvabili. Quando ormai mi ero rassegnato, ricordo di aver chiesto a un ferramenta di via Mazzini, a Imperia, Ferrotek. La proprietaria mi ha spiegato, con grande gentilezza, di aver esaurito le scorte. Allora, sconsolato, le ho raccontato in breve la mia giornata. La signora si è commossa, ha preso dalla sua borsa l’ultima mascherina sterile che le rimaneva dalla sua scorta privata e me l’ha regalata, mi sono commosso anch’io.

In un’altra occasione sono andato dalla Protezione Civile, a Caramagna, per chiedere se avessero mascherine.Anche noi siamo senza‘ mi hanno risposto. Un ragazzo che stava disinfettando i loro mezzi ha sentito la nostra conversazione. Mi ha detto ‘dottore scusi, io ne ho tre, se vuole’. E me le ha date”.

Com’è cambiato il suo lavoro negli ultimi due mesi?

“Il Coronavirus è una malattia orribile. Può non darti alcun sintomo o una sintomatologia devastante, di vario genere. Non solo respiratoria.

Ho 1.350 pazienti, quasi tutti anziani. Ho voluto tenere aperti tutti e quattro i miei studi, a Pieve di Teco, Armo, Rezzo e Borghetto d’Arroscia, per dare un sostegno psicologico. Ricevo solo su appuntamento, per sicurezza. Mi sono organizzato in questo modo, cercando di non lasciare nessuno indietro.

E’ una guerra psicologica, fisica. Ho perso 8 kg. Bar e ristoranti sono chiusi. Non c’è la possibilità di mangiare qualcosa al volo, di rifiatare un attimo. Anche solo di scambiare due parole.

Una visita dura pochi minuti. E’ prepararsi, per la sicurezza propria e degli altri, che porta via molto tempo. Si controllano le condizioni del paziente, si misura la saturazione sotto stress fisico, si verifica il respiro dalla schiena, se presenta anomalie da polmonite. Si somministra una terapia, eventualmente. Se c’è qualcosa che non convince si richiede il ricovero.

Una cosa, per quel che mi riguarda, è fondamentale. I pazienti, se hai i dispositivi di sicurezza, li devi guardare in faccia. Non è possibile gestirli al telefono.

Attualmente sono quattro i miei pazienti ricoverati. Uno è stato dimesso oggi, gli altri tre sono in buone condizioni, per fortuna”.

Ha perso qualche paziente?

Si, purtroppo. Ne ho persi quattro. E’ molto difficile da accettare, soprattutto per le famiglie. Scopri di essere malato e in 15-20 giorni non ci sei più nonostante cure attentissime da parte del personale sanitario. Negli ospedali sono stati sempre tutti straordinari. Purtroppo questa malattia, se prendi la strada sbagliata, ti porta sino alla morte senza che si possa fare niente”.

Ha avuto paura di ammalarsi e di contagiare amici o parenti?

“Certo. Inizialmente ero molto preoccupato. A casa ho due bambine e una moglie. Non vedo i miei genitori da 45 giorni. Ho fatto il tampone e sono risultato negativo”.

Com’è stato accolto il virus nell’entroterra?

“Con grande preoccupazione. Ma c’è stata una reazione da comunità. Un esempio su tutti, che ci tengo davvero a raccontare. I miei pazienti, la sera, mi chiamano. ‘Come stai dottore? A casa tutto bene?’. Si preoccupano per me. Mi danno la forza di andare avanti.

Vorrei poi spendere due parole per i farmacisti di Pornassio e Pieve di Teco. Mi sono stati tanto vicino psicologicamente nel momento più difficile, a metà marzo, quando non vedevo la fine. Sono stati eccezionali”.

Ora come vede il futuro?

“A metà marzo avevo 30 casi aperti. Non vedevo la fine di tutto questo. Ora invece vedo la luce. Credo sia fondamentale che le persone capiscano realmente la gravità di quello che sta accadendo. La maggior parte delle persone vive in una bolla. Si lamenta di dover stare a casa, di annoiarsi. Questa bolla, ad un certo punto, quando il Coronavirus colpisce un tuo familiare o un tuo amico, si spacca. Capisci davvero cosa vuol dire.

Le persone non si devono lamentare. C’è tempo per recuperare. Fuori c’è chi fa turni massacranti, chi lavora giorno e notte per questa emergenza.

Spero che chi ha criticato i medici di famiglia, definendoli inutili, passati di moda, si renda conto che senza di noi il sistema sarebbe crollato. Il medico di famiglia non è uno scribacchino, ci vuole rispetto per il nostro lavoro.

Io vado a dormire sereno a fine giornata, perché so in cuor mio di aver fatto tutto il possibile. Gli errori, certo, li facciamo tutti. Io, ad esempio, potrei aver risposto male a qualche paziente in un momento di nervosismo. Ne approfitto per chiedergli scusa. Spero mi perdoneranno”.

 

 

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