“Si è cercato di orientare il giudicante a ritenere provati fatti storici (non percepiti direttamente dagli investigatori) in base a prove logiche, che, tuttavia, si sono rivelate, ad avviso di questo giudice, inidonee alla dimostrazione degli addebiti”. Lo scrive il Giudice del Tribunale di Imperia Paolo Luppi nelle motivazioni della sentenza di assoluzione per dieci dipendenti del Comune di Sanremo nell’ambito del processo sui cosiddetti “furbetti del cartellino”.
I dieci dipendenti sono: Luigi Angeloni, Maurizio Di Fazio, Rosella Fazio, Patrizia Lanzoni, Loretta Marchi, Luisa Mele, Sergio Morabito, Alberto Muraglia (il famoso “vigile in mutande”), Roberta Peluffo, Paolo Righetto.
Imperia: processo “furbetti del cartellino”. Ecco le motivazioni
“Le diverse conclusioni alle quali si è pervenuti – scrive il giudice Luppi – sono state determinate, da un lato, da una diversa opinione sull’interpretazione di atti giuridici di carattere amministrativo su cui una parte delle contestazioni si fondava, dall’altro su una, parimenti divergente, impostazione circa l‘attribuzione dell’onere della prova in alcune, importanti circostanze.
Le critiche all’inchiesta
“[…] gli inquirenti, benchè si verta in materia penale, nella quale principi generali e di civiltà giuridica impongono, nel dubbio, interpretazioni favorevoli all’indagato, hanno dato, invece, per scontato la vigenza dell’obbligo di causalizzazione delle uscite per servizio mediante sistema informatico (digitazione dei tasti F1 o F6 presso gli apparecchi marcatempo o con il sistema InfoPoint).
Hanno ritenuto sostanzialmente inutili e non probanti eventuali attestazioni di uscite indicate come avvenute per ragioni di servizio, ma effettuate con diversi sistemi (tramite richiesta rivolta al dirigente del settore di appartenenza e annotazione su appositi registri, ndr).
Si badi che dalla mancata causalizzazione con le modalità indicate (apparecchi marcatempo e sistema InfoPoint, ndr) dalla dottoressa Orlando (segretario generale, ndr) si è fatta discendere automaticamente la non inerenza al servizio delle uscite del dipendente, presumendosi che questi abbia non, solo inadempiuto agli obblighi di attestazioni impostigli (il che potrebbe – seppure non necessariamente – essere condotta suscettibile di rilievo disciplinare), ma abbia serbato anche condotte fraudolente, non svolgendo alcuna attività lavorativa all’esterno (rispetto alla sede di servizio).
Secondo l’opinione difensiva (condivisa da questo giudice) all’epoca dei fatti contestati non era in vigore (o comunque non era obbligatoria) la procedura Infopoint nè quella di autocausalizzazione con la digitazione F1 o F6.
La scelta di un’indagine a tappeto così imponente (come si è detto, 270 sono stati i dipendenti del comune di Sanremo indagati) – si legge ancora – e il tipo di condotte che dovevano essere provate avrebbe forse richiesto, se disponibili, l’impiego di maggiori risorse umane (a livello di personale di PG incaricato delle attività investigative). […] Ora, nella stragrande maggioranza dei casi, per carenze investigative non addebitabili al PM, ma verosimilmente dovute a penuria di risorse umane (dato l’esiguo numero di operatori di PG disponibili), il pedinamento dei dipendenti è avvenuto solo in alcuni casi e, di regola, in tali casi quei soggetti che sono stati sorpresi a svolgere attività extra lavorative mentre avevano attestato ‘uscite per servizio’ con i vecchi sistemi, a fronte del quadro probatorio a loro sfavorevole, hanno patteggiato la pena. Negli altri casi, pur in mancanza di prove su dove si trovasse e cosa stesse facendo il dipendente ‘uscito per servizio’, da parte della Pubblica Accusa si è presunto che egli stesse facendo altro rispetto ai compiti inerenti l’attività lavorativa.
A questo punto occorre dare atto che le difese avrebbero potuto limitarsi a contestare le asserzioni del PM. Quest’ultimo, in sostanza, in assenza di prove concrete che smentissero il dipendente che aveva attestato (concedendo: anche in modo improprio) di esser al lavoro, ha attribuito a questi e alla sua difesa l’onere della provare tale circostanza. Nonostante tale possibilità, invece, le difese, con un lavoro spesso certosino, si sono assunte l’onere (che, lo si ripete, non era necessario assolvessero) di ricercare, talvolta a distanza di anni rispetto ai fatti da indicare in (solo apparente) controprova, elementi idonei a dimostrare lo svolgimento, da parte del dipendente uscito per servizio, di attività inerenti a quest’ultimo. Sin da ora si ribadisce, dunque, che questo giudice ritiene fosse onere della pubblica accusa fornire la rigorosa prova che il dipendente avesse falsamente attestato di essere uscito per ragioni di servizio.
Conseguentemente, anche in quei casi in cui, comprensibilmente (per difficoltà o impossibilità oggettive o per carenza di mezzi economici che consentissero laboriose indagini difensive sul punto), non si sia accertato in cosa fossero consistite le ragioni di servizio per le quali era intervenuta l’uscita, questo Giudice ha ritenuto non provata l’accusa, sulla sola base del fatto che l’attestazione fosse avvenuta con metodi diversi da quelli (che il PM riteneva) prescritti.
I dirigenti esclusi dall’inchiesta
“I dirigenti dei singoli settori erano i soggetti che dovevano valutare le ragioni delle omesse timbrature e che dovevano regolamentare, in virtù dei loro poteri organizzativi,le uscite per servizio.
Alla luce di tali considerazioni risulta necessario porsi un ulteriore interrogativo. Come vedremo i dirigenti dei settori ai quali appartenevano gli imputati (imputati che sono accusati, oltre che di altre violazioni, di essersi allontanati dal luogo di lavoro adducendo falsamente ragioni di servizio), secondo logica, avrebbero avallato condotte illecite degli stessi.
Tali dirigenti, in palese violazione (secondo il postulato della pubblica accusa) di obblighi che disciplinavano le uscite per servizio, avrebbero serbato condotte che sicuramente meritevoli di un’indagine nei loro confronti. Sarebbe stato, infatti, logico cercare di comprendere, perchè tali dirigenti in materia di uscite per servizio avessero concesso (con una prassi per il PM non più legale), autorizzazioni orali poi trasfuse in appositi registri cartacei.
E sarebbe stato altresì interessante capire per quali ragioni, data l’abitualità di tale modus procedendi, i dirigenti dei settori ai quali appartenevano i dipendenti ritenuti infedeli, non siano stati ritenuti responsabili (o comunque non siano stati indagati) per un loro (nell’ottica del PM) palese concorso nei reati commessi datali dipendenti.
E’ accaduto, invece, che tali dirigenti abbiano sostanzialmente e fermamente ribadito la legittimità della prassi seguita dai loro sottoposti in materia di uscite per servizio”.
Misure cautelari corrette
“Per correttezza va sottolineato come indubbiamente gli elementi raccolti dal PM poterono fondare legittimamente l’applicazione di misure cautelari anche restrittive, atteso che la reale gravità indiziaria sussitente nel contesto in cui furono formulate le richieste di dette misure si è palesata in modo diverso solo dopo il confronto con gli elementi apportati dalle difese al processo, attraverso le indagini difensive svolte, l’allegazione di prove documentali e l’acquisizione di testimonianze (quali prove “condizionanti” il rito abbreviato), nonchè con le chiarificazioni apportate tramite la copiosa produzione di memorie”.
Truffa ai danni dello Stato
Vanno fatte alcune considerazioni circa le fattispecie di truffa aggravata continuata, in concorso, contestate a quasi tutti gli imputati nelle varie circostanze in cui il gli stessi, in realtà assenti dal lavoro, avrebbero istigato colleghi a provvedere alla effettiva timbratura del loro cartellino marcatempo, inducendo così in errore il datore di lavoro – Comune di Sanremo – circa la loro effettiva presenza sul posto di lavoro.
I dipendenti si sarebbero procurati un ingiusto profitto, pari alla retribuzione indebitamente percepita per il periodo di tempo in cui si erano assentati dal luogo di lavoro, con uguale danno per l’ente pubblico.
Ora, questo giudice ritiene che, in un sistema incentrato su principi che richiedono una reale offensività delle condotte che si assumono come penalmente illecite, non sia sufficiente, per dimostrare l’integrazione del reato come sopra contestato, la mera circostanza che la timbratura sia avvenuta da parte di un soggetto diverso dal lavoratore titolare del badge. Quel che deve rilevare, al fine di poter affermare la responsabilità penale, è che la timbratura da parte di terzi diversi dal dipendente titolare del badge abbia costituito parte di una condotta fraudolenta, volta a far figurare presente sul posto di lavoro il soggetto intestatario del Badge, in realtà assente.
Quando si analizzeranno le singole posizioni degli imputati, si vedrà che, pur non essendo loro onere, tutti hanno dimostrato che la timbratura effettuata con il loro badge da colleghi si accompagnava alla loro presenza in ufficio, talvolta con la loro presenza a pochi metri di distanza dal collega ‘timbrante’. Sono emerse altresì varie, comprensibili, logiche e lecite ragioni che portavano colleghi presenti a richiedere dette timbrature in loro favore.
Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici
Rimasta indimostrata l’assenza del dipendente dal posto di lavoro (o dimostratane la presenza), le condotte strumentali (da qui la contestazione dell’aggravante teleologica) a favorirne o a coprirne la (erroneamente) presunta assenza devono ritenersi insussistenti e prive di ogni rilievo penale.
E’ quel che accade nei casi in cui si contesta il reato di cui all’art.479 cp al dipendente accusato di ‘aver riferito falsamente di avere omesso per dimenticanza/errore la timbratura del cartellino marcatempo, inducendo così in errore (art.48 cp) l’addetto alla compilazione del foglio mensile riepilogativo delle presenze presso l’ufficio personale del Comune di Sanremo che attestava, contrariamente al vero, la sua presenza sul posto allorché, a fronte di un determinato orario dichiarato, si era, invece, allontanato dal posto di lavoro’.
Una volta rimasta indimostrata tale assenza o tale allontanamento oltre al reato di truffa cade anche il reato di falso strumentale alla contestata truffa.
E, naturalmente, la formula dell’assoluzione per insussistenza del fatto, deve avere necessaria priorità rispetto a quella conseguente ad una derubricazione nella fattispecie di cui all’art.485 cp (perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato).
Come è noto la sentenza delle SS.UU. della Corte di Cassazione n.15983 del 2008 ha sancito il principio di diritto per cui ‘i cartellini marcatempo ed i fogli dei pubblici dipendenti non sono atti pubblici, essendo essi destinati ad attestare da parte del pubblico dipendente solo una circostanza materiale che afferisce al rapporto di lavoro tra lui e la pubblica amministrazione (oggi soggetto a disciplina privatistica), ed in ciò si esauriscono in via immediata i loro effetti, non involgendo affatto manifestazioni dichiarative, attestative, o di volontà riferibili alla pubblica amministrazione’.
Ne deriva che le false attestazioni operate dal pubblico dipendente integrano la fattispecie di cui al’art.485 cp., che è stata oggetto di abrogazione, attuata con il D.lgs. n.7 del 2016.
Analoghe considerazioni valgono quando la presenza del dipendente in servizio è dimostrata (o non è provata la sua assenza) allorchè la contestazione (sempre del reato di cui all’art.479 cp) concerna la condotta con cui l’imputato, per realizzare la truffa in danno dell’ente, ‘ometta di timbrare il cartellino marcatempo allorché si allontani dall’ufficio ovvero provveda alla timbratura cui non segua l’entrata in ufficio, attestando così falsamente la propria presenza presso il posto di lavoro, trovandosi egli in uscita per servizio’.
Ed ancora, nel caso di cui poco sopra si è trattato della falsità ideologica realizzata da chi timbra, istigato da un collega, con l’altrui cartellino marca tempo (in favore di un soggetto in realtà presente sul luogo di lavoro).
Interruzione di un ufficio o servizio pubblico o di un servizio di pubblica necessità
Dimostrata la presenza del dipendente in servizio (o indimostrata la sua assenza) deve ovviamente escludersi che si sia verificata una turbativa della regolarità dei servizi inerenti il settore in cui detto dipendente operava .
Falsa attestazione della presenza in servizio
Anche in questo caso l’assoluzione consegue alla carenza di prove della falsità dell’attestazione della presenza in servizio che (ai fini dell’integrazione del reato (a condotta fraudolenta vincolata) deve necessariamente essere realizzata mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente.