“Alla luce della mobilitazione di domenica 26 luglio a Ventimiglia contro la chiusura del Campo Roja e in seguito alla nostra recente visita all’isola di Lampedusa, desideriamo porre anche a voi tutti, cari lettori, questa domanda: quando e fino a quando una persona è considerata straniera? È straniero l’immigrato giunto come tale nel nostro paese, anche se infante, e lo rimane per tutta la sua vita? – Interviene così, tramite una nota stampa, Claudio Mastrantuono, portavoce delle Sardine Ponentine.
Immigrazione, l’intervento delle Sardine Ponentine
“Ragioniamoci sopra e proviamo a rispondere a queste domande. Tempo fa, abitando vicino a corso Garibaldi a Sanremo, guardavo inizialmente con curiosità uno dei primi emigranti di colore a Sanremo. Credo che lavorasse presso un fruttivendolo. Si chiama o lo chiamavano Mustafa. Poi non ci feci più caso del suo colore della pelle anche perché appariva completamente assimilato alla nostra cultura, al nostro territorio, alla nostra strada di Sanremo. Era anche mio papà un emigrante meridionale. Tempo fa, infatti, il modello predominante che caratterizzava l’incontro italiano-straniero era quello dell’assimilazione, tendente cioè a rendere le persone conformi tra loro cancellando le differenze culturali e assorbendo di conseguenza un “diverso” che cessava per ciò stesso di esserlo. Se un “non nativo” non riesce ad assumere quello che “noi” siamo e come “noi” ci comportiamo, finisce escluso dalla società, rimanga o meno nel territorio del paese ospitante.
Questa logica comune, così attraente perché spiccia, ma altrettanto controproducente a medio e lungo termine, è moderata dall’approccio dell’inserzione: viviamo gli uni accanto agli altri con le nostre difformità e disparità giustapposte e attente a non offendersi reciprocamente. Gli uni resteranno sempre estranei agli altri, in una tipica relazione di “indifferenza” e “invisibilità” che osserva la presenza di una o più minoranze all’interno di una maggioranza che considera se stessa come solidamente identitaria e impermeabile. Quindi ci è indifferente se questi “stranieri” li releghiamo in hot-spot come a Lampedusa o in baraccapoli come a San Ferdinando e Rosarno o anche in “campo di passaggio” come quello del Roja a Ventimiglia…basta che rimangano “invisibili”.
L’integrazione invece presuppone il riconoscimento delle difformità e delle differenze, l’adeguamento ad esse attraverso processi differenziati nell’obiettivo di una inter-culturalità che consente di convivere tra somiglianze e differenze. È uno scenario che desidera un’uguaglianza nel “minimo comune” di diritti, di un equilibrio di dare/avere che facilita la partecipazione attiva di tutti alla vita economica e produttiva, anche se alcuni diritti/doveri restano in capo solo a quanti hanno la piena cittadinanza o subordinate a remore culturali o etniche.
Infine la con-cittadinanza – intesa non solo come definizione giuridica, ma come piena condivisione del paese e territorio in cui si abita, in cui la logica dell’uguaglianza attiva diviene anche identità sociale e culturale.
A noi piace il cosiddetto “metodo Riace”
Nel 1998, lo sbarco di duecento profughi dal Kurdistan a Riace Marina. L’associazione Città Futura (dedicata al parroco siciliano Don Giuseppe Puglisi, ucciso dalla mafia) si dedicò ad aiutare i migranti appena sbarcati dando loro a disposizione le vecchie case abbandonate dai proprietari, ormai lontani dal paese.
Grazie alle sue politiche di inclusione, il primo cittadino di Riace, Mimmo Lucano, è riuscito a dare ospitalità non solo ai rifugiati (fino a 400 in tutto il paese), ma anche a tutti gli immigrati irregolari con diritto d’asilo, mantenendo in vita servizi di primaria importanza come la scuola e finanziando il piccolo comune con micro attività imprenditoriali legate all’artigianato.
C’erano infatti laboratori tessili e di ceramica, ma anche bar e panetterie per arrivare alla raccolta differenziata porta a porta, garantita da due ragazzi extracomunitari e trasportata attraverso l’utilizzo di asini.
L’integrazione dei migranti era assicurata da circa settanta mediatori culturali assunti dal comune e facenti parte del sistema Sprar (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati), nato proprio per proporre, oltre le misure di assistenza e di protezione ai singoli beneficiari, il processo di integrazione sociale ed economica di cui Riace si faceva promotrice.
Un modello che nel 2016 fruttò al sindaco Mimmo Lucano l’inserimento da parte della rivista Fortune tra i 50 leader più influenti al mondo…tanto influente da dare fastidio.
Da quando il Consiglio di Stato ha sconfessato la chiusura di tutti i progetti Sprar di Riace ordinata dal Viminale, all’epoca in mano al leader della Lega, Matteo Salvini, un diluvio di messaggi, da tutta Italia e persino dall’estero sono arrivati al sindaco Mimmo Lucano. Ma Lucano che di quel borgo era sindaco, nonostante la vittoria non nasconde l’amarezza e la rabbia. “Volevano distruggere Riace e ci sono riusciti” dice a chiunque gli chieda un commento.
Sono per questi motivi che chiediamo a questo governo, chiare azioni di DISCONTINUITA’, iniziando a rivedere la Legge Bossi-Fini, abrogando i decreti (in)Sicurezza di Salvini e promulgare una legge sullo Ius Culturae e studiare bene una legge sullo Ius Soli.
Questo è il desiderio di un cammino che vuole trasformare la possibilità o l’incapacità della convivenza, di qualsiasi convivenza, anche tra vecchi e giovani, ricchi e poveri e di qualsiasi dichiarazione sessuale, in una scelta consapevole, in una ricerca di comunicazione e di vitale dialogo che trova un fondamento nella responsabilità per l’altro. Perché non è morto il prossimo. Non dimentichiamo la lezione di Emmanuel Lévinas: la responsabilità è sempre per il prossimo, è per l’altro ed è la struttura essenziale per la individualità: “Io sono nella misura in cui sono responsabile!”.