Francesco Fiducia, 43 anni, di Imperia, ha vissuto l’incubo Coronavirus, ricoverato per due settimane in terapia intensiva all’Ospedale di Sanremo. Dimesso lo scorso 10 dicembre, ha voluto raccontare la propria drammatica esperienza per sensibilizzare l’opinione pubblica sui pericoli di una pandemia che non risparmia nessuno e per ringraziare i medici del nosocomio matuziano, che chiama “i suoi angeli”.
Francesco, com’è iniziato tutto?
“Da qualche giorno avevo la febbre sino a 38.5. Si abbassava con la Tachipirina, ma poi risaliva. Sabato ho fatto il tampone, al Palasalute di Sanremo, e sono risultato positivo, così come la mia compagna e mia figlia. Domenica mattina, 29 novembre, sono svenuto”.
Com’è successo?
“Ero sul divano, guardavo la televisione. Mi sono sentito sempre più debole. Ho avuto la forza di chiamare la mia compagna che era in camera con la bambina. Mi sono ritrovato con lei al telefono che chiamava l’ambulanza. Qualche minuto di blackout dovuto alla carenza di ossigeno. La mia compagna mi ha salvato la vita chiamando subito i soccorsi, senza indugiare un istante.
Quando è arrivata l’ambulanza ero pienamente cosciente, ma molto preoccupato. Non sapevo cosa mi sarebbe successo e quando avrei rivisto i miei cari. Per fortuna in ambulanza ho viaggiato con due signore gentilissime, calme, rassicuranti”.
Dove potresti aver preso il Coronavirus, sei riuscito a capirlo?
“È difficile, ci penso spesso. Per lavoro con le Iene giro l’Italia, tra autogrill, alberghi, treni. Pur stando massimamente attento, con mascherina e distanze, è possibile che l’abbia preso. O magari anche qui a Sanremo”.
Ti aspettavi che la situazione potesse precipitare così repentinamente?
“No. Non me l’aspettavo, anche se la febbre era veramente di forte impatto sul mio fisico. Il giorno seguente, lunedì, avrei dovuto vedere il mio medico”.
Quando sei arrivato all’Ospedale cosa è successo?
“Al Pronto Soccorso ricordo parecchi esami del sangue e tac. Grande professionalità e grande cura da parte di tutti i sanitari, ma mi sentivo perso, non sapevo bene cosa mi stesse succedendo. Per 3 giorni sono rimasto ricoverato al padiglione Castillo dell’Ospedale di Sanremo, dove ho iniziato la terapia antibiotica, antipiretica, steroidea, eparinica e gastroprotettiva. I valori, però, sono peggiorati, e sono stato trasferito nell’area subintensiva Covid, nel padiglione Giannoni. Ho continuato le terapie via flebo e ho iniziato la ventilazione di ossigeno, con la mascherina, giorno e notte”.
Cosa hai pensato in quei momenti?
“Sono stati i giorni più difficili della mia vita. Porto ancora sul volto i segni della maschera, che doveva essere attaccata perfettamente al volto per non far fuoriuscire l’ossigeno. Tenerla giorno e notte, con alcune brevi pause per mangiare, è stato devastante. Dovevo stare fermo e respirare ossigeno, sdraiato di lato o a pancia in giù. In quei momenti pensi che ce la devi fare. Che devi vivere per te e per chi ti vuole bene”.
Hai avuto paura di non farcela?
“Si, l’ho pensato, nonostante sia abbastanza giovane. Purtroppo sono morti anche dei miei coetanei, alcuni in pochi giorni. Sono stati fondamentali gli infermieri, gli oss, sono angeli veri in quei momenti, non so come avrei fatto senza di loro. E anche i messaggi dei tanti amici, colleghi, familiari, conoscenti. Sono stati ‘ossigeno’ in più per me”.
Sei riuscito a tenerti in contatto con la tua famiglia durante il ricovero?
“Solo via sms. Tutti i giorni, quando ero in intensiva nelle pause brevi. La famiglia, per fortuna, non mi hai mai lasciato solo. Ho sempre pensato che fosse stato meglio che me lo fossi preso io così forte piuttosto che loro”.
Come sono arrivate le dimissioni?
“Quando ho iniziato a stare meglio sono stato trasferito al piano superiore del Giannoni. Sono rimasto chiuso in una stanza, facendo esercizi di respirazione. Non ce la facevo più, non dormivo la notte. Appurato che i miei valori continuavano ad essere buoni, ho richiesto insistentemente alla fisioterapista e al dottore di poter tornare a casa per continuare le mie cure e stare meglio psicologicamente”.
Com’è stato tornare a casa, rivedere i tuoi familiari?
“Una via crucis al contrario. Dall’ospedale a casa sembrava non passare mai, ma me lo sono goduto questo piccolo viaggio verso casa. Scrutavo, dal finestrino dell’ambulanza, la gente che camminava. Il traffico, il sole, il mare, la normalità. Il ritorno in casa fatto di abbracci e tanta commozione. La fine di un incubo, o quasi la fine”.
Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
“Ora come ora sono ancora positivo. Ho il tampone giovedì. Ho una stanchezza, una debolezza tremenda. Qualche chilo in meno, che sto già recuperando a casa. E la velv pep, uno piccolo strumento che mi aiuta a fare esercizi di respirazione. A livello psicologico, una grande paura, sofferenza e incertezza”.
Cosa ti senti di dire a chi ancora oggi nega l’esistenza del virus o lo considera “solo” come il virus degli anziani?
“A chi nega il virus o a chi minimizza, auguro semplicemente di non vivere esperienze come ho vissuto io, che mi ritengo comunque fortunato. Li invito a vedere i servizi in tv dove si raccontano le storie dei malati. E di stare sempre molto attenti perché può succedere a chiunque”.
Cosa ne pensi delle polemiche sulle nuove chiusure per Natale?
“Che di base ci dovrebbe essere una sorta di buon senso in ognuno di noi. Ma non sembra esserci. Se vedo un fiume di gente per strada o al bar o in negozio, io non mi ci fiondo ad occhi chiusi. Di certo il Governo sembra un po’ confuso. Concede permessi che poi ritira poco dopo. C’è una gran confusione in tutto”.