23 Dicembre 2024 17:05

23 Dicembre 2024 17:05

Da Imperia alle favelas brasiliane: la storia di Beatrice Baratto. “Povertà e violenza, ma qui mi sento a casa. Il mio bar è un punto di riferimento. Il Covid? Nessuno ci pensa” / Le immagini

In breve: Beatrice, che gestisce un bar ad Areia Branca, una favela di Salvador di Bahia, è diventata un punto di riferimento per la gente del posto, che l'ha soprannominata "Gringa".

Non so nemmeno io spiegare perché mi sono affezionata a un posto dove non c’è nulla e dove è pericoloso andare in strada di notte. Sta di fatto che mi sono innamorata di questi luoghi, di queste persone. Qui mi sento a casa come non mi sono mai sentita da nessun’altra parte“.

Così Beatrice Baratto, giornalista e scrittrice imperiese, racconta l’esperienza che sta vivendo in una favela brasiliana, dove vive ormai dallo scorso ottobre.

Una realtà completamente diversa da quella a cui siamo abituati, ma non per questo meno ricca di emozioni e legami sociali.

Beatrice, che gestisce un bar ad Areia Branca, una favela di Salvador di Bahia, è diventata infatti un punto di riferimento per la gente del posto, che l’ha soprannominata “Gringa”. Ogni volta che rientra dall’Italia, grazie all’aiuto di benefattori imperiesi, porta generi alimentari e articoli di primo soccorso, piccole cose che in quel luogo fanno la differenza. 

Fuori dai grandi centri delle metropoli, nelle favele il problema del Covid sembra lontano, nonostante la variante brasiliana stia preoccupando il resto del mondo.

Di questo e molto altro ci ha parlato Beatrice. Ecco l’intervista.

Da Imperia alle favelas brasiliane: la storia della scrittrice Beatrice Baratto

Come è arrivata a trasferirsi in una favela brasiliana?

Ormai sono 8 anni che vado e torno dal Brasile. Tutto è iniziato da un mio caro amico brasiliano che ho conosciuto in Italia. Una volta mi ha invitato nella favela di Salvador e sono andata. Io ero già stata in Brasile, ma solo in posti turistici come Rio de Janeiro, Copa Cabana. Per la prima volta mi sono ritrovata nella realtà delle favelas, ho iniziato a fare amicizie, ad affezionarmi al posto e alle persone. Da lì non ho più smesso di tornarci e ora mi sento a casa, è la mia famiglia”.

Dove vive ora esattamente? Com’è una favela?

“A Salvador di Bahia, in una favela che si chiama Nova Areia Branca Invasao. Anticamente le favele erano dei terreni nei quali non c’era nulla. Le persone povere che non avevano la possibilità di vivere in città, senza lavoro e senza soldi, hanno iniziato a stabilirsi in questi terreni, costruendo baracche su baracche, e poco a poco sono nate le piccole comunità.

Nel posto dove vivo non c’è un ospedale, c’è solo un posto di primo soccorso, dove puoi giusto farti medicare. Non c’è una farmacia, c’è un negozietto dove vendono un po’ di tutto e anche qualche medicina, ma non vendono l’intera confezione, ma l’unità, ad esempio una pastiglia, così come le sigarette. Non vendono il pacchetto ma una sigaretta alla volta. C’è un mercato, una persona che aggiusta le bici e una persona che taglia i capelli. 

Non sono garantiti servizi relativi all’igiene pubblica o ai beni primari, come l’acqua o l’elettricità. Ci si arrangia come si può. La gente gira scalza, le fogne sono a cielo aperto.

Purtroppo gli episodi di violenza sono all’ordine del giorno e di notte è pericoloso uscire per strada.

Il livello di scolarizzazione è bassissimo, quasi nessuno sa leggere o scrivere. Io tutte le volte che torno dall’Italia porto valige piene di medicinali di primo soccorso, cose semplici come garze e cerotti, che qua però sono preziose. Porto vestiti e cibo, grazie anche all’aiuto di tanti imperiesi.

È proprio un altro modo di vivere. Se non hai da mangiare, chi ne ha te ne dà un po’. Sono la prima ad aiutare gli altri e ormai lo sanno tutti che su di me possono contare.“.

C’è molta povertà, quasi nessun servizio essenziale, poca igiene e violenza. Cosa la spinge a rimanere? Non ha preoccupazioni per la sua sicurezza?

Nella mia vita ho viaggiato moltissimo, sono stata nei posti più belli del mondo, dalle Maldive alle Mauritius, da New York ai Carabi. Non so nemmeno io spiegare perché mi sono affezionata a un posto dove non c’è nulla e dove è pericoloso andare in strada di notte.

Sta di fatto che mi sono innamorata di questi luoghi, di queste persone. Qui mi sento a casa come non mi sono mai sentita da nessun’altra parte. La gente del posto mi dice sempre che in un’altra vita sono stata una di loro.

Non sono preoccupata. Ho un’assicurazione sanitaria e ho una grande fede”. 

Cosa fa in favela?

“Ho preso un bar che si chiama “Bar della Gringa” perché qui tutti mi chiamano così. È diventato un punto di ritrovo”.

In tutto il mondo si parla della variante brasiliana del Covid. In favela com’è percepito il problema? C’è attenzione?

“Alla gente di qui non importa del Coronavirus, non ci pensano proprio. Si percepisce l’emergenza solamente se si va nelle grandi città, dove per entrare nei luoghi pubblici, come supermercati o centri commerciali, bisogna indossare le mascherine. Ma altrimenti nessuno la usa.

Il covid è arrivato in favela? Chi lo sa. Se qualcuno ha la tosse o la febbre si fa un decotto e recita le preghiere, sperando che guarisca presto. Non c’è controllo sanitario.

Purtroppo a causa del covid le poche scuole che ci sono hanno chiuso e i bambini hanno perso quel minimo di possibilità di istruzione”.

Quali sono i suoi progetti per il futuro?

“L’ultima volta che sono venuta qui sono stata da febbraio a giugno. Poi sono ripartita il 4 ottobre 2020 e sono tuttora qua. Avevo il volo a gennaio, ma le frontiere sono chiuse e ho rimandato a fine febbraio. Rientrerò a Imperia per qualche mese ma poi tornerò qui. Sono troppo legata a questo posto”.

Cosa le ha insegnato la vita in favela?

“Mi ha insegnato a essere più forte, a fare a meno delle frivolezze, a pensare alle cose più importanti. Soprattuto, mi ha fatto ritrovare la fede. Qui si vivono esperienze che non si possono immaginare, è una continua crescita personale”.

Gaia Ammirati

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