26 Dicembre 2024 06:15

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Imperia: dramma delle Foibe, la storia dell’esule Lino Vivoda. “A 12 anni sono fuggito dai bombardamenti. Ci accusavano di essere fascisti, solo qui ci hanno accolti come fratelli” / Foto e video

In breve: Alla cerimonia ha preso parte Lino Vivoda, testimone del drammatico periodo storico, che ha raccontato commosso le tappe del suo esilio che lo hanno portato a Imperia.

Si è svolta questa mattina, mercoledì 10 febbraio, la celebrazione della “Giornata del Ricordo” in onore delle vittime delle Foibe e dell’esodo dei 350.000 italiani, istriani, giuliani e dalmati.

Presente il Sindaco di Imperia Claudio Scajola, il presidente del Comitato Provinciale di Imperia dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia Pietro Tommaso Chersola e numerose autorità civili e militari del territorio.

Alla cerimonia ha preso parte Lino Vivoda, testimone del drammatico periodo storico, che ha raccontato commosso le tappe del suo esilio che lo hanno portato a Imperia.

Lino Vivoda, testimone

Ringrazio la gente di Imperia per questo ricordo che fanno ogni anno per i nostri morti e per quelli come me che sono sparsi in giro per i cinque continenti. La gente di Imperia si è comportata molto diversamente nei confronti di chi, come me, è venuto dall’altra sponda dell’Adriatico in Italia, con il treno da Ancona a La Spezia. Naturalmente ci accusavano di essere fascisti perché scappavamo da un ‘paradiso rosso’, quello dei partigiani di Tito che ammazzavano tutti solo perché erano italiani. Un comportamento di Imperia diverso da quello di Bologna. Nel treno viaggiavamo su vagoni bestiame sulla paglia, dopo 15 ore ci siamo fermati a Bologna dove le crocerossine avevano preparato il latte caldo e le minestre. Sono arrivati esagitati a gridare ‘via i fascisti, se no fermiamo tutto il traffico’, ci hanno rovesciato il latte e le minestre e ci hanno fatto ripartire fino a Parma e poi siamo andati a La Spezia. Il clima nelle altre città era diverso da quello di Imperia, dove abbiamo avuto un’accoglienza fraterna. Il mio concittadino, il professor Carlo Gonan, è diventato due volte sindaco qui di Imperia. Ringrazio la gente di Imperia perché ci ha accolto come fratelli.

Io avevo 12 anni nel 1943, vivevo a Pola, quando mio padre ci ha mandato in Istria per sfuggire ai bombardamenti e sono capitato in mezzo alla guerra partigiana. Mi hanno anche rastrellato le SS, sapevo due parole di tedesco e mi sono salvato, gli altri li hanno mandati tutti in Germania. Su 30 sono tornati in 4. Poi ho esperienze di guerra. Mi ha preso un bombardamento in mezzo alla strada, ho salvato una bambina che era seduta sui gradini di un palazzo, le ho detto vieni via con me in rifugio, dopo che ci siamo allontanati di 30 metri dov’era seduta lei è caduta la bomba che ha buttato giù il palazzo. Sono morti la mamma, il papà e il fratello.

Ho lasciato Pola,  la città dove sono nato, assieme a migliaia di concittadini solo per rimanere italiani. Chi restava doveva prendere la cittadinanza jugoslava, parlare croato, era abolito l’italiano. Erano chiuse le scuole. Un’esperienza dura di guerra”.

 

Pietro Tommaso Chersola, Presidente del Comitato Provinciale di Imperia, Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, Centro Studi Padre Flaminio Rocchi

“Anche quest’anno rinnoviamo ufficialmente la memoria della tragedia al confine orientale delle foibe e dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati, come nel 2004 ha citato la legge 92, dopo ben 60 anni di silenzi più o meno colpevoli, o conniventi.

Migliaia ormai sono le iniziative pubbliche e di scuole impegnate a fare luce su quelle sofferenze patite dagli Italiani giuliano-dalmati che hanno costituito una pagina strappata nel libro della nostra storia, volendo citare le parole del presidente Mattarella, che ancora nel 2016 si è recato a Trieste per celebrare il 62° anniversario del ricongiungimento di Trieste all’Italia. In quella occasione si recò anche a Gorizia, dove si incontrò col presidente sloveno Borut Pahor: Gorizia, divisa in due, come Berlino. Gorizia conquistata dalle truppe titine nel maggio del 1945, dopo la strenua difensiva che nel gennaio 1945 nella selva di Tarnova fecero i Volontari di Francia, inquadrati nella Divisione Decima, contro forze preponderanti titine.

Gli ” sporchi macaroni “, come i francesi appellavano in modo spregiativo i figli degli emigrati italiani ( molti dei quali in dissidio col regime fascista) dopo la resa incondizionata del 3 settembre ’43, sotto il coordinamento del capitano di vascello Enzo Grossi, alla base atlantica Betasom, affluirono nel battaglione dedicato al Capitàn da mar Barbarigo, storico comandante della flotta veneziana a Lepanto.

Si cercò di contrastare l’avanzamento dal sud delle truppe titine, ma già dall’aprile del ’44 la situazione stava precipitando: i Vescovi di Trieste, Parenzo, Pola, Fiume Udine e Gorizia scrivevano ” rileviamo che nella nostra regione il disprezzo e le lesioni della dignità e dei diritti inerenti alla persona umana , lo spargimento di sangue e le torture si ripetono con una frequenza così impressionante da costituire una involuzione paurosa verso uno stadio di barbarie, e con i continui forzati prelevamenti e la deportazione di uomini e donne vengono disgregate le famiglie, demolite le parrocchie, resa impossibile ogni vita e civile”.

L’ambasciatore Tarchiani riferì che De Gasperi protestò a Washington contro le deportazioni e le fucilazioni a Trieste e Gorizia, e contro il regime di terrore: 4.000 persone scomparse, 700 sembra siano state fucilate a Trieste. Le truppe angloamericane finora hanno assistito passivamente alla scena”.

L’ex sindaco di Trieste, Cecovini, scriveva “si verificano massicci prelievi notturni di cittadini inermi, conclusi per la maggior parte nell’orrore della foiba. La rabbia slava si accanì spietatamente. Si seppe di squartamenti di donne gravide, di estirpazioni di occhi, di evirazioni; le torture erano all’ordine del giorno, la spaventosa realtà delle foibe era di comune dominio.

La situazione, col passare dei mesi, divenne sempre più tragica, con il IX Corpus, che si era costituito alla fine del ’43 con diverse brigate partigiane, che avanzava su Fiume e Gorizia, attraverso la via più breve a nord dell’Istria.

Le città cominciarono a svuotarsi, da Fiume fuggirono 54.000, su 60.000; da Pala 32000, su 34,000; da Zara 20.000 su 21.000; da Rovigno 8.000 su 10.000; da Capodistria 14.000 su 15.000. Gli Istriani, i Fiumani, i Dalmati abbandonarono le loro case sotto il controllo poliziesco dei partigiani slavi e del Dipartimento per la protezione del popolo, la polizia politica di Tito. Molti cercarono di passare sui monti del Carso di Gorizia e di Trieste con fughe drammatiche spesso interrotte da una raffica di mitra, dallo scoppio di una mina, o sul filo spinato.

Altri, provenienti dalle coste istriane o dalle isole, affrontarono l’Adriatico con fragili barche a remi, e raggiunsero l’Italia stremati dalla fatica. Parecchi vennero catturati dalle vedette slave e condannati a 6, 10 anni di lavori forzati. Spesso la spiaggia romagnola e marchigiana restituì le salme dei fuggiaschi, involti da una improvvisa bufera. Ad Ancona ogni tanto arrivava un rimorchiatore slavo, e si trascinava via 5-10 barche, consegna. dai Profughi alla Capitaneria di Porto.

Il 7 marzo 1947 la bara di Nazario Sauro seguì la sorte di migliaia di istriani e dalmati: issata avvolta nel Tricolore sul cassero della motonave Toscana, lasciò la città di Pola e raggiunse Venezia, sua ultima dimora. Secondo la ricerca fatta dal Colella il 45 % dei profughi erano operai, ed il 24 % anziani e disabili.

Da allora, per 60 anni, anche la verita storica venne infoibata, per riprendere il titolo di una ricerca del giornalista di guerra Fausto Biloslavo apparsa recentemente, con gravi rivelazioni riguardo al difficoltoso processo di una riconciliazione ad ostacoli in atto tra Italiani, Serbi e Croati, su cui ancora ultimamente è autorevolmente intervenuto il nostro Presidente Mattarella.

L’omaggio fatto dal Presidente sloveno alla Foiba di Basovizza, con i suoi 250 metri cubi di resti umani compattati dal tempo, costituisce un fatto storico, ancorché inserito in un quadro di relazioni internazionali complesse, con molteplici questioni ancora irrisolte, compresa la restituzione dei beni italiani.

Tuttavia, da rimarcare una nuova collaborazione con la Commissione governativa slovena per l’individuazione delle fosse comuni, presieduta dallo storico Joe Deman, che ha identificato 750 fosse comuni, e nel luglio scorso, nella foresta di Kocevski ha rinvenuto 250 corpi , tra cui un centinaio di bambini tra 15 e 17 muli, giustiziati sul posto, gettati nella foiba, e ricoperti di detriti forse da prigionieri, a loro volta ammazzati e scaraventati nel vuoto.

Tra questi, forse molti sloveni, compresi quelli che si erano arresi agli Inglesi in Austria nel 1945, e che questi riconsegnarono agli slavi di Tito, troppo impegnati, forse, con l’ottava armata, sotto il comando del generale Harold Alexander, ad occupare il porto di Trieste, talmente strategico sulla direttrice per Vienna da permettere al IX Corpus di avanzare fino a Gorizia ( benché Tito volesse arrivare fino all’Isonzo ), bestialmente insanguinando per sempre di rosso la verde Istria.

Avvenimenti che noi, discendenti degli Italiani sopravvissuti a questa tragedia, abbiamo l’obbligo di ricordare, perché il Male nell’uomo, lo sappiamo, difficilmente sparisce.

Come il persistere anche oggi del negazionismo delle foibe e di tutti gli eccidi, della Shoah e di altri genocidi, purtroppo ci insegna. Nuove foibe virtuali sono sempre pronte, per inghiottire la verità”.

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