“Nella nostra società non è concesso mostrarsi fragili, dobbiamo essere forti, sempre performanti. La parte più difficile è ammettere a se stessi che c’è qualcosa che non va, perché subentra il sentirsi in difetto, il sentirsi debole. Non siamo abituati a riconoscere le debolezze, vengono viste come qualcosa di negativo, da eliminare e nascondere. Questa cosa va cambiata, i disagi mentali non devono più essere un tabù”.
Parole forti e potenti quelle di Laura, 33enne imperiese, ha deciso di esporsi pubblicamente per affrontare una tematica lasciata nel “dimenticatoio” della vita sociale: la sfera relativa ai disagi mentali.
Com’è ormai noto, con l’arrivo della pandemia da Covid, che ha sconvolto le vite di tutti nell’ultimo anno e mezzo, i disturbi di salute dal punto di vista psicologico sono aumentati, specialmente tra i più giovani, i quali, da un giorno all’altro, hanno visto azzerarsi tutte le occasioni di socialità e incontro, prima fra tutti la scuola. Situazioni che spingono i ragazzi a isolarsi e a chiudersi in se stessi, con la conseguente crescita di casi di depressione, ansia e altri disturbi psicologici, dai più lievi ai più complessi. Emergenza che ultimamente sta ricevendo sempre più attenzione anche a livello mediatico, ma che era presente, ovviamente, anche prima del Coronavirus. È la tendenza della nostra società a nascondere, se non negare, le difficoltà di questo tipo.
Insieme a Laura, che ha affrontato, e sta affrontando, un lungo lavoro su se stessa dopo il ricovero in psichiatria nel 2013, abbiamo deciso quindi di trattare l’argomento con l’obiettivo di strapparlo alla sfera dei “tabù” e spingere i più giovani in difficoltà a non isolarsi, a chiedere aiuto e a non vergognarsi.
Imperia: “I disagi mentali non devono più essere un tabù”. La forza di Laura
Puoi raccontarci la tua esperienza?
“Era aprile 2013, sono passati 8 anni da quel giorno. Avevo 25 anni, avevo trovato lavoro in un negozio a Imperia e c’era l’intenzione di andare a convivere con il mio ragazzo di allora. Poi sono iniziati i problemi a lavoro, il responsabile mi trattava male, mi insultata davanti ai clienti. Dato che stavamo cercando casa ho iniziato a essere molto ansiosa, pensavo ‘se perdo il lavoro come faccio? Sarò all’altezza?’. Sentivo un forte senso di inadeguatezza.
All’inizio non ci ho dato troppo peso, pensavo fosse solo un momento. Pian piano però ho iniziato a mangiare meno, a essere assente, distratta, a non dormire. Le persone che avevo interno hanno iniziato ad accorgersene e mi hanno consigliato di andare da uno psichiatra. La situazione, però, è poi degenerata, non dormivo ed ero sempre meno lucida, finchè sono stata ricoverata al reparto SPDC dell’ospedale di Imperia, psichiatria per intenderci. La diagnosi dei medici parlava chiaro: avevo una grave crisi ansioso depressiva”.
Cosa ti ricordi del ricovero in ospedale?
“Mi davano le medicine, ero sempre sedata, dormivo quasi tutto il tempo. Non ero lucida, all’inizio non ero nemmeno totalmente consapevole di dove fossi. Il mattino dopo il ricovero, quando è arrivata l’infermiera le ho perfino chiesto ‘ma sono morta?’. Ricordo che stavo malissimo e non c’era niente che mi desse un po’ di sollievo, ma la cosa più brutta era il pensiero ossessivo che da quella situazione non ne sarei mai uscita.
Ho dormito per ore, immobile in quel letto, ho appena il ricordo sfocato di facce intorno a me. Ma piano piano mi sono ripresa, e dopo quasi tre settimane – che mi sono sembrate una vita intera – sono stata dimessa. Da quel momento, oltre alla cura farmacologica, ho iniziato percorso di psicoterapia, con una dottoressa con cui mi sono trovata molto bene e mi ha aiutato tanto.
Sono tornata alla mia vita pensando che quella fosse stata solo una parentesi, un episodio che non si sarebbe ripetuto, un ‘incidente di percorso’. In fondo, mi dicevo, un po’ di stress ci poteva stare. Non sapevo che a distanza di appena un anno avrei avuto un’altra crisi a cui è seguito un altro ricovero, più breve ma non meno doloroso. Anche quella volta sono tornata me stessa abbastanza velocemente e sono partita appena un mese dopo per un’avventura in Australia che sarebbe durata un anno.
Quello è stato l’ultimo ricovero, ma le crisi d’ansia non mi hanno lasciata in pace. Ho continuato ostinatamente per anni a pensare che fossero solo frutto di contingenze momentanee, che sarebbero andate via in fretta così come si erano palesate. Ci sono voluti anni di terapia, anni di ‘incidenti di percorso’ per capire che non si deve mai ignorare un malessere interiore che scava così a fondo”.
La parte più complessa, quindi, è proprio quella di riconoscere il problema?
“Sì, la parte più difficile è ammettere a te stesso che c’è qualcosa che non va, che va guardato meglio osservato e capito. Una parte di me che non ho ascoltato. Solo quando ho iniziato ad ascoltarmi e ad accettarmi ho iniziato davvero a lavorare su me stessa. Spesso l‘istinto e il corpo capiscono prima le situazioni, avvertono il disagio e lo mostrano esternamente, ma razionalmente ci arrivi dopo. È anche difficile ammetterlo a se stessi”.
Perché secondo te succede questo?
“Perché nella nostra società non è concesso mostrarsi fragili, dobbiamo essere forti, sempre performanti. Subentra il sentirsi in difetto, il sentirsi debole. Non siamo abituati a riconoscere le debolezze, vengono viste come qualcosa di negativo, da eliminare e nascondere. Quindi quando ti capitano questi momenti tu per primo non li vuoi accettare, vuoi negare che esistono. Molti amici o colleghi che frequentavo allora nemmeno sapevano cosa stavo passando, e molti non lo sanno ancora adesso, perché tenevo tutto nascosto, quasi come se ci fosse qualcosa di cui vergognarsi. Sono stata molto fortunata perchè ho sempre avuto il supporto della mia famiglia e delle persone care a me vicine, ma non tutti hanno questo sostegno. Per questo è importante parlarne, perché vivere queste situazioni da soli dev’essere terribile. Bisogna aiutarsi l’un l’altro.
Adesso che la pandemia ha accentuato il problema se ne parla di più, ma è un’emergenza che è presente da tanto tempo. Sarebbe importante che ci fosse molta più educazione e informazione sulla salute mentale, a partire dalle scuole”.
Recentemente hai deciso di raccontare la tua storia online, come mai questa scelta?
“Prima di tutto per una volontà personale di ammettere delle cose a me stessa, riconoscere che non ho niente di cui vergognarmi, che non c’è niente di sbagliato in me e che ho avuto la forza per superare quei momenti. Inoltre, c’è sicuramente il desiderio di comunicare alle persone che non si devono sentire in difetto e che non c’è nulla di male nello stare male. Bisognerebbe educare alla sofferenza invece che rimuoverla, cercare di accettarla. La sofferenza e il dolore fanno parte della vita e possono farci capire qualcosa di più di noi stessi. Sono un inizio di consapevolezza, di autoscoperta, non vanno negati o considerati come qualcosa da eliminare”.
Pensi che l’emergenza covid abbia influito sull’aumento di problemi psicologici?
“Sicuramente questo è un periodo di affaticamento e sofferenza molto diffuso per tutti. Ci siamo ritrovati le nostre abitudini stravolte, abbiamo dovuto cambiare stile di vita. La difficoltà più grande deriva dalla mancanza di contatti, dai momenti di aggregazione e condivisione. Io ho vissuto il primo lockdown a Firenze e condividevo la casa con due coinquiline con cui mi sono trovata molto bene, sono stata fortunata. Penso però a chi l’ha vissuto solo, chiuso in casa, dev’essere stato tosto, e ancora adesso lo è per molti.
La cosa migliore per affrontare questo periodo difficile credo sia quella, da una parte, di cercare momenti di condivisione, anche a distanza, e dall’altra concentrarsi su se stessi, dedicarsi a ciò che ci fa stare bene.
Ultimamente ho iniziato un percorso di psicoterapia di gruppo online dove ci si trova in un’aula virtuale e si condivide, guidati da una psicoterapeuta, la propria esperienza. È molto bello perché si ritrova quel senso di aggregazione e condivisione che adesso ci manca”.
Qual è la società che vorresti?
“Sarebbe bello vivere in una società meno individualista, meno egoista. Se ognuno smettesse di preoccuparsi solo di se stesso e pensasse anche agli altri, il mondo funzionerebbe meglio. Sembra forse banale, ma non le è. Si tende a pensare al proprio piccolo orticello, ma se invece ci si sostenesse a vicenda, si costruisse un senso di comunità, si potrebbe vivere meglio. È bello esserci per gli altri e sapere che gli altri ci sono per te.
La società tende a isolarci a farci crescere con un po’ di egoismo, però, come recita il titolo di un libro di Margaret Mazzantini, ‘nessuno si salva da solo’. Se non hai qualcuno con cui condividere la tua vita e le tue debolezze, non ha senso raggiungere ipotetici successi”.
Un appello per chi sta attraversando quello che hai affrontato tu?
“Vorrei dire loro di non chiudersi, di confidarsi con le persone care, chiedere aiuto a uno specialista. Non c’è niente di male ad ammettere il problema. Curare la salute mentale non è solo questione di farmaci, la psicoterapia è fondamentale. I farmaci eliminano il sintomo, ma sulla causa ci devi lavorare, io l’ho capito a distanza di anni. A volte si ha paura di iniziare perchè poi ti trovi di fronte a delle verità scomode, lati oscuri di te che ti fa male scoprire. Però bisogna accettare anche quella parte di sé, è bello portare un po’ di luce anche lì”.