Tra il 15 e il 16 dicembre 1969 Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico, muore precipitando dal quarto piano della Questura di Milano mentre viene interrogato dopo essere stato fermato, il 12 dicembre, nell’ambito delle indagini (dalle quali risultò totalmente estraneo, così come Pietro Valpreda) sulla Strage di Piazza Fontana (avvenuta il giorno stesso e solo nel giugno 2005 attribuita al gruppo eversivo di estrema destra “Ordine Nuovo“, i cui colpevoli non sono mai stati perseguiti) condotte dal Commissario Capo Luigi Calabresi (poi ucciso in un agguato il 17 maggio del 1972).
Ancora oggi, a distanza di oltre 50 anni, non si è arrivati a una verità, nonostante l’impegno e la tenacia della moglie Licia e delle figlie Claudia e Silvia. Suicidio prima, malore poi, le versioni ufficiali, sempre contestate dalla famiglia, secondo cui Giuseppe Pinelli morì per mano della Polizia.
E proprio Claudia Pinelli ieri, a Imperia, ospite di un incontro organizzato dall’associazione culturale Apertamente, in collaborazione con la libreria Ragazzi, ha ripercorso, attraverso il libro “Una storia quasi soltanto mia” scritto a quattro mani dalla madre Licia e dal giornalista Piero Scaramucci, i drammatici momenti precedenti e successivi alla morte del padre Giuseppe e l’ostruzionismo delle istituzioni nel percorso di ricerca della verità.
Claudia Pinelli a Imperia: “quel giorno in cui morì mio padre”
“Mio padre aveva fatto la notte. Era tornato alle sette del mattino ed era andato a dormire. A svegliarlo fu l’arrivo di un conoscente. Mia madre venne a prenderci a scuola, me e mia sorella. Mio padre uscì di casa, sappiamo che andò a a giocare a carte in un bar. Si spostò per la città con il suo motorino. Andò alla stazione Garibaldi per ritirare la tredicesima, poi al Circolo Scaldasole. Li trovò la Polizia che stava facendo una perquisizione e portava via i presenti. Sulla macchina della Polizia non c’era posto. Chiesero a mio padre di seguire la Volante della Polizia sino in Questura. Lui lo fece, entrò in Questura e da quella Questura non uscì mai più. Venne trattenuto in un fermo illegale per oltre 72 ore. Un fermo può durare massimo per 48 ore, per legge. Da alcuni verbali risultava addirittura già rilasciato. Nel corso dell’ennesimo interrogatorio, nella notte tra il 15 e il 16 dicembre, mio padre morì precipitando dal quarto piano, dove aveva sede l’ufficio del Commissario Capo Calabresi.
Mia madre il 12 dicembre non sapeva fosse esplosa una bomba, non sapeva nulla della strage di Piazza Fontana. Si trovò la Polizia in casa. Io e mia sorella quando arrivammo a casa trovammo la porta spalancata e delle persone all’interno. Io entrai, abituata ad avere tante persone per casa. Mi sentii afferrare da mia madre, che mi disse ‘non ti puoi avvicinare, questa è la Polizia’. Assistemmo alla perquisizione. I poliziotti portarono via tutti i documenti, rovesciarono tutto, materiale che non abbiamo mai più rivisto. Aprirono l’unico armadio di casa, aprendo i regali di Natale che li erano nascosti. Mia madre capì che mio padre era stato fermato perché un poliziotto disse ‘Pinelli non c’è, è già qui da noi’.
Quando andarono via i poliziotti, mia madre chiamò sua sorella e da lei scoprì che era scoppiata la bomba di piazza Fontana. Mentre metteva a posto i documenti cercava di tranquillizzarci. Ci diceva che era scoppiata una bomba, che c’erano dei morti, che nostro padre era in Questura. ‘Ma non vi preoccupate, gli faranno prendere un bello spavento e poi lo faranno tornare a casa’. Invece nella notte tra il 15 e il 16 mio padre non tornerà. Ad arrivare, invece, furono dei giornalisti.
Mia madre aprì lo spiraglio della porta e venne abbagliata dai flash dei fotografi. Erano i giornalisti che le dissero che mio padre si trovava in gravissime condizioni all’Ospedale Fatebenefratelli dopo essere precipitato da una finestra della Questura. E furono i giornalisti ad accorrere per primi dal corpo di mio padre dopo la caduta, perché nessuno dei poliziotti scese nel cortile della Questura. Mia nonna, che quella notte era con noi, si vestì di corsa e si recò in Ospedale. Mia madre telefonò in Questura e rispose l’ufficio del Commissario Calabresi. Chiese perché non era stata avvisata del fatto che il marito era caduto dalla finestra. Si sentì rispondere ‘Signora abbiamo tanto da fare’.
Mia madre ci portò a casa di amici e successivamente andò in Ospedale dove trovò mia nonna Rosa che stava girando da sola per le corsie dell’Ospedale perché nessuno le aveva detto niente, le aveva fatto vedere il figlio. Aveva capito però che era morto, perché un infermiere aveva ritirato il modulo dell’obitorio.
Il Questore di Milano, all’epoca, era Marcello Guida, nel ventennio direttore del confino fascista di Ventotene. Questo lo dico perché quello che è successo è accaduto perché il fascismo è stato sconfitto a livello militare, ma mai a livello culturale. Le persone formate nel ventennio fascista hanno continuato a fare la loro carriera. I fascisti finita la guerra sono stati utilizzati in chiave anticomunista da coloro che dicevano di averli sconfitti.
Su quello che è accaduto a mio padre si è arrivati a una verità storica in mancanza di una verità giudiziaria”.
Claudia Pinelli a Imperia: l’intervista
Cosa le è rimasto dentro in tutti questi anni, dato che non si è mai arrivati a una verità?
“Sicuramente la difficoltà di avere una verità e una giustizia in questo paese. Non c’è una questione di contrapposizione. Verità e giustizia sono qualcosa che dovrebbe essere dovuto. Diritti che ognuno di noi dovrebbe avere. E invece non ci sono. E una democrazia compiuta deve mettersi di fronte a qualcosa che non ha saputo affrontare. E non aver paura della verità”.
In questi giorni si è parlato tanto del G8, diventato negli ultimi anni l’emblema delle difficoltà nei rapporti con lo Stato per arrivare alla verità. Lei cosa ha provato in queste settimane?
“G8? Queste cifre tonde. Il ventesimo del G8 di Genova, il cinquantesimo della strage di Piazza Fontana e della morte di Giuseppe Pinelli. Queste sono tutte date che ti riportano a ricordare. Non dovremmo ricordare solo nelle cifre tonde. E’ chiaro che ci vuole il tempo, il tempo per poter ammettere quello che è evidente da subito e non si può dire. Devono essere le famiglie, sempre le famiglie. La famiglia di Carlo Giuliani, di Giuseppe Pinelli, di Cucchi, di Aldrovandi, che devono mettersi in questo cammino terribile che dura anni.
Bisogna avere la forza materiale, morale, perché non tutti ce la possono fare. Devi pagarti le perizie, gli avvocati. Noi come famiglia Pinelli abbiamo avuto la solidarietà della società civile, che ci ha anche aiutato. Perché da solo non vai molto lontano. Chiaramente il nostro percorso ci ha portato a sentire particolare vicinanza con persone che hanno avuto lutti terribili. Purtroppo per mano di uno Stato e di chi indossa una divisa, certo della propria impunità. Questo è qualcosa che va affrontato. Non bisogna aspettare che ci capiti per essere sensibili sull’argomento, perché ognuno di noi può essere il capo espiatorio. E’ quello che è successo a mio padre, a Carlo Giuliani, può succedere a chiunque. E questo bisognerebbe tenerlo in considerazione”.
Il Sindaco di Imperia è Claudio Scajola che era Ministro dell’Interno proprio durante il G8. Nel caso in esame rappresenta, forse, quello che è lo Stato in questo momento, dove sembra che la responsabilità non sia mai di nessuno e viene scaricata sugli altri. Poi sono sempre i più deboli a pagare, anche tra le forze dell’ordine
“La responsabilità penale è personale. Qui stiamo parlando di persone che rispondono a ordini impartiti. E nel momento in cui questo non suscita nessun tipo di scandalo, vuoldire che è il sistema. Il costo delle mele marce non può essere sempre messo sul banco per scaricare, nel momento in cui la situazione diventa difficile, su altri capi espiatori. Diciamo che se io vado dal fruttivendolo e compro delle mele e quando torno a casa trovo delle mele marce, io mi rivolgo al fruttivendolo, non alle mele. Questo è quello di cui dovremmo renderci conto tutti quanti”.
C’è stato anche un incontro tra la vostra famiglia e quella di Calabresi forse a testimoniare un tentativo di riavvicinamento, per dire che siamo tutti vittime di questo sistema?
“Il tentativo di riavvicinamento non è arrivato dalle famiglie, ci siamo trovati insieme nella giornata delle vittime delle stragi, le famiglie non c’entrano. Non si contrappone un dolore a un altro dolore. Conta la vita che hai fatto, non che sei morto o come sei morto. Luigi Calabresi è stato una vittima perché è stato assassinato. Ma faceva parte di un sistema che ha portato alla morte di mio padre, che è stato una vittima innocente. Ed è difficile metterli sullo stesso piano. Le famiglie non c’entrano.
Le due vedove si sono strette la mano, ma loro sono le persone che hanno sofferto. Non si contrappongono i dolori. La verità va rispettata. E non si deve aver paura della verità. Il fatto che le persone siano morte non le rende tutte uguali”.
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