“Quel giorno in pochi minuti ricevetti 99 messaggi sulla segreteria telefonica da persone che mi chiedevano se stessi bene e non capivo perchè. Poi quando ho scoperto cosa stava succedendo sono rimasto scioccato. Ho perso tanti amici e colleghi, non li dimenticherò mai”.
Così Benito Chiara, 51enne newyorkese di origini italiane (la zia e il cugino vivono a Imperia), racconta ciò che ricorda del fatidico 11 settembre 2001, giorno in cui tutto il mondo si fermò davanti alle immagini devastanti dell’attentato alle Torri Gemelle, colpite e distrutte da due aerei dirottati da un gruppo di terroristi appartenenti all’organizzazione terroristica al Qaida. I morti furono 2.977.
Benito Chiara, detto Benny, all’epoca aveva 31 anni, era senior manager di “Windows On the World”, una serie di locali esclusivi agli ultimi piani della Torre Nord del World Trade Center. Quel giorno, però, Chiara non si trovava in ufficio, per riposarsi dopo giorni intensi che lo avevano trattenuto a lavoro fino a tarda sera. Una causalità che lo ha salvato da morte certa, com’è stato per tutti i suoi colleghi e amici.
Esattamente vent’anni dopo, Benito Chiara racconta a ImperiaPost i sentimenti che ha provato quel giorno, affermando che “ogni giorno sulla Terra è un miracolo”.
20 anni dall’11 settembre 2001: la storia di Benito Chiara
Quali sono i suoi legami con Imperia?
“Sono nato a New York, negli USA, ma ho origini italiane. Mia zia e il mio caro cugino Alessandro vivono a Imperia, il resto della mia famiglia in Sicilia. Alcuni dei miei ricordi più belli di quando ero bambino sono legati ai momenti vissuti con loro e gli altri cugini quando venivo in Italia, per le vacanze estive. Ancora adesso vengo in Italia ogni estate per vedere la mia famiglia. È la mia seconda casa e ci continuerò a portare i miei figli più che posso come hanno fatto i miei genitori con me. Voglio che conoscano le loro origini”.
Quanti anni aveva e che lavoro faceva nel settembre del 2001?
“Avevo 31 anni ed ero senior manager di ‘Windows On the World’ ai piani 106 e 107 della Torre Nord. Era era una delle strutture per conferenze più esclusive al mondo. Incontravo quotidianamente dirigenti di Wall Street, presidenti, reali e autorità importanti di tutto il mondo”.
Qual è il suo ultimo ricordo nel suo ufficio?
“Risale alla sera prima, tardi, quando stavo chiudendo la porta del mio ufficio, salutando i miei colleghi che non avrei mai più rivisto. Poi ho preso l’ascensore al 107° piano per scendere, senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta”.
Cosa stava facendo quando ha saputo dell’attentato?
“Ero a casa, il primo giorno dopo un periodo molto faticoso in cui lavoravo tutti i giorni fino a tarda notte. Probabilmente il Signore aveva altri piani per me. Ricordo che la prima telefonata che ho ricevuto fu quella di mia madre, mio padre e mio fratello che mi chiamavano dalla Sicilia per chiedermi se stessi bene.
Avevo un vecchio apparecchio per la segreteria telefonica che poteva registrare fino a 99 messaggi. Quando ho controllato il telefono la voce registrata disse che c’erano 99 messaggi, arrivati in pochi minuti. Ero sotto shock e non riuscivo a capire perchè così tante persone mi stessero chiamando”.
All’inizio cosa pensava che fosse successo?
“All’inizio pensavo che un elicottero per turisti si fosse scontrato con le torri. Ricordo infatti che c’era un particolare elicottero che si avvicinava molto al mio ufficio per dare ai turisti una visione ravvicinata”.
Quando ha realizzato la gravità della situazione quali sono stati i suoi primi pensieri?
“Il primo è stato quello di far sapere ai miei cari che vivono in Italia che stavo bene. Il secondo è stato chiedermi cosa potessi fare per prestare aiuto. Ho perso così tanti amici e colleghi. Eravamo come una famiglia per via di tutto il tempo che trascorrevamo insieme. È stato difficile accettare che le loro vite si siano spezzate in un atto di violenza così insensato.
In quel periodo vivevo in una casa a Staten Island, sull’acqua. Potevo sentire l’odore del fumo e vedevo la cenere arrivare fin lì, poichè non ero lontano dalle Torri. Quando sono crollate, ricordo di aver sentito il pavimento vibrare sotto i miei piedi. Non scorderò mai quel momento”.
Come ha reagito?
“Ricordo che pensavo: ‘non c’è una ragione logica per cui io non sia là’. Mi chiedevo perchè non fossi nel mio ufficio al 107° piano insieme ai miei colleghi e perchè la mia vita fosse stata risparmiata”.
Cosa ha fatto dopo quel periodo?
“Mi sono trasferito in Florida per diventare uno sceriffo e tentare di catturare alcune delle persone che hanno provato a farmi del male e che hanno tolto la vita ai miei colleghi. Mi ricordo il giorno in cui entrai nel dipartimento dello sceriffo per fare domanda. Mi chiesero se fossi sicuro di quello che volevo, perchè la paga era molto più bassa di quanto guadagnassi in precedenza. Dopo che raccontai loro la mia storia, spiegando i motivi che mi spingevano a farlo, mi accettarono nell’accademia. C’erano più di 30 mila aspiranti quell’anno per diventare sceriffi, ma solo trenta furono scelti. Io fui il secondo della mia classe.
Ero animato dalla volontà di fare tutto quello che era in mio potere per fare la cosa giusta. Ero molto più giovane e arrabbiato di adesso, poi gli anni sono passati e mi sono calmato, trovando una nuova ragione di vita. Ogni tanto mi chiedo, specialmente durante questo periodo dell’anno, cosa avrei fatto se avessi mai catturato qualcuno che avesse avuto a che fare con l’attentato dell’11 settembre, mentre ero sceriffo. Penso che sia meglio che non sia mai successo”.
Cosa fa ora?
“Possiedo una società che investe nel settore immobiliare”.
C’è qualcosa che fa ogni anno il giorno dell’anniversario dell’attentato?
“Prima di tutto ringrazio Dio di essere ancora qui. Abbraccio mia moglie e i miei figli. Poi chiamo qualche vecchio amico che considera, come me, quel giorno come un secondo compleanno, un’altra occasione di vivere”.
Come si sente a distanza di 20 anni da quel giorno?
“Mi sento benedetto. E spero in qualche modo di aver fatto la mia parte per un mondo migliore”.
Ora è un padre di famiglia, come parla ai suoi figli di quello che è successo?
“I miei figli sono ancora piccoli, ma sanno che delle ‘persone cattive’ hanno provato ‘a portare via papà’. Sanno anche che sono molto presente nelle loro vite e che li proteggerò per sempre da tutto e tutti”.
Come si sente riguardo a quello che sta succedendo ora in Afghanistan?
“Nessuna persona civile desidererebbe la guerra o la vendetta. Sono triste per tutte le vite che abbiamo perso invano. Trovo la serenità pensando che un giorno sarò in un posto di eterna pace e altri saranno da un’altra parte”.
Cosa direbbe alle giovani generazioni?
“Quello che dico ai miei figli ogni giorno. Siate buoni e fate cose buone.
Credo che ogni giorno sulla Terra sia un miracolo, dal momento in cui siamo stati benedetti con il dono della nascita a ogni giorno in cui Dio ci dà la possibilità di vivere sulla terra che ha creato per noi. Ci dà la libertà di scegliere e, da quell’11 settembre fino all’ultimo giorno in cui vivrò, spero di scegliere sempre le cose giuste ai suoi occhi.
La memoria di ciò che è successo non si cancellerà mai da dentro di me. Uso quei ricordi per rendermi più forte, per essere un padre migliore per i miei figli, un marito migliore per mia moglie, un fratello migliore, un figlio migliore per mia madre e mio padre, che ora è in Paradiso”.
Ecco alcune immagini
“Questi oggetti per me hanno un valore inestimabile e ogni anno, intorno a questo periodo, li tiro fuori e ringrazio Dio di essere ancora qui.
Questa è la chiave del mio ufficio che apriva il 107° piano della Torre 1. Erano state realizzate solo poche copie di queste chiavi e non potevano essere duplicate, come riportato sulla chiave stessa. Penso che questa sia l’ultima esistente di questo tipo.
Questa mezzaluna è un fermacarte che era stato realizzato appositamente per gli uffici della direzione. Non credo che ne esistano degli altri.
Questo è un blocchetto di post-it che tenevo sulla mia scrivania e che, il giorno prima dell’11 settembre, avevo infilato nella tasca dei miei pantaloni”.
Gaia Ammirati