26 Dicembre 2024 02:52

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Silvia Cirillo orgoglio di Imperia: nel team di Bristol che ha scoperto la proteina “ripara-ferite”. “Fin da piccola appassionata di scienza. Gender gap? Ancora tanta strada da fare”

In breve: Silvia Cirillo ha 36 anni e da 10 anni vive e lavora nel Regno Unito

Una ricercatrice imperiese nel team dell’Università di Bristol che ha scoperto la proteina “ripara-ferite”. Si tratta della 36enne Silvia Cirillo, da 10 anni nel Regno Unito, dove ogni giorno lavora nell’ambito della ricerca biologica.

Negli ultimi giorni la notizia dell’importante articolo pubblicato sulla rivista Science, che potrebbe avere sviluppi determinanti per l’elaborazione di nuove terapie nella medicina rigenerativa e nella lotta ai tumori, ha occupato meritatamente le pagine di tutti i principali quotidiani nazionali, dato che nel gruppo di lavoro inglese sono ben tre le presenze italiane: oltre all’imperiese Cirillo, Giulia Pilia (dalla Sardegna) e Eugenia Piddini (dalla Sicilia).

ImperiaPost ha contattato la dottoressa Silvia Cirillo per avere maggiori dettagli sullo studio e capire cosa si cela dietro questo grande lavoro.

Proteina ripara-ferite: l’imperiese Silvia Cirillo tra le ricercatrici di Bristol

Qual è il fulcro della vostra ricerca?

“Il nostro laboratorio si occupa di competizione cellulare. Partiamo dalla ‘drosofila’ (un insetto) come animale modello e diverse linee cellulari su cui studiamo la competizione.

In particolare, lo studio che abbiamo pubblicato, di cui Giulia Pinna e Kasia Kozyrska sono le principali autrici, riguarda la proteina P53, nota anche come ‘guardiano’ del genoma, per via della sua capacità di mantenere stabilità nei momenti di crisi. Abbiamo scoperto che questa proteina si attiva nelle cellule epiteliali che hanno subito un danno, ad esempio una ferita, e le trasforma in cellule ‘leader’ capaci di indirizzare la migrazione delle cellule vicine per riparare la ferita.

Stiamo approfondendo questo studio e se riuscissimo a dimostrare che questi meccanismi si verificano anche nei tessuti complessi potremmo sfruttarli per controllare la migrazione cellulare e aiutare la guarigione di ferite che faticano a rimarginarsi, come ulcere o gravi ustioni. Un altro importante campo in cui si potrebbero avere sviluppi è quello dei tumori, dove gruppi di cellule si muovono insieme per creare metastasi. Questo studio potrebbe portare a elaborare nuove terapie per bloccare la formazione delle metastasi.

Ci sono quindi diverse possibili applicazioni future che potrebbero migliorare la vita delle persone”.

Cosa c’è dietro questo grande lavoro?

“Tanta fatica e tanto sudore. Per pubblicare questo articolo ci abbiamo messo più o meno 5 anni e tutto è cominciato ancora prima. Circa 6 anni fa era stato pubblicato un altro articolo in cui si illustravano determinati ruoli della P53 e si faceva riferimento a risultati interessanti emersi da alcuni esperimenti. Così, nei 5 anni successivi, abbiamo cercato di coltivare questi risultati e cercare di capire meglio, fino ad arrivare alla pubblicazione di questo articolo”.

Come si svolge la sua giornata?

“Ogni giorno mi divido tra lavorare ‘sotto cappa’ (in condizioni sterili) per effettuare esperimenti con le cellule provando a mantenerle in vita in diverse situazioni, e analizzare i dati ottenuti dagli esperimenti. Nel mio tempo libero mi dedico allo sport, dal calcio all’arrampicata e la bici, e alla mia passione per la cucina”.

Qual è la parte più appassionante del suo lavoro?

“Sicuramente i momenti in cui vediamo che vengono confermate le ipotesi che abbiamo elaborato prima degli esperimenti. Il nostro lavoro è fatto di tentativi ed è una grande soddisfazione quando vediamo che vanno a buon fine. Allo stesso tempo, l’altro lato della medaglia è la frustrazione per tutte le volte in cui, invece, non otteniamo i risultati sperati”.

Qual è stato il suo percorso per arrivare al laboratorio di Bristol?

“Dopo il diploma al Liceo Scientifico Vieusseux di Imperia, mi sono laureata all’Università di Pisa. Dopo diverse esperienze in Italia, tra cui all‘Istituto di Ricerca sul Cancro dell’Ospedale San Martino di Genova, mi sono trasferita nel Regno Unito, dove ho conseguito un dottorato di ricerca in Ingegneria Chimica e Biologica presso la Sheffield University. Dopodiché, ho fatto domanda per un posto di lavoro di ricerca all‘Università di Bristol. Inizialmente ero nel laboratorio di Immunologia e in seguito ho fatto domanda per il laboratorio di Eugenia Piddini”.

Dove è nata la sua passione per la scienza?

“Ho sempre avuto il pallino per la scienza. Quando ho finito le scuole medie per me è stata una scelta ovvia quella di andare allo Scientifico, sapevo già che sarei voluta diventare biologa. Il Liceo mi ha permesso di acquisire più conoscenze dal punto di vista scientifico.

Da piccola sempre stata affascinata dalla scienza, guardavo Piero Angela, Super Quark. Ricordo che alle scuole medie, quando ci hanno introdotto le leggi della genetica, sono rimasta folgorata da questa materia”.

La presenza femminile nella ricerca si sta facendo sempre più importante. C’è ancora tanta strada per colmare il “gender gap”?

“Sicuramente c’è ancora tanto da fare, però è importante riconoscere che questo gender gap esiste e si sta facendo qualcosa per rimediare. Io lavoro in università ed è un ambiente fantastico dal punto di vista etico, è inclusivo e aperto a ogni minoranza, che sia di etnia, di genere o nell’ambito LGBT. Mi reputo fortunata, c’è molta attenzione per questi temi”.

E in Italia?

“Ormai sono quasi 10 anni che non sono in Italia, quindi non so dire precisamente come sia la situazione. So che non ci sono molti fondi per la ricerca ed è un peccato perchè la formazione scolastica e universitaria italiana è di alta qualità”.

Qual è il suo rapporto con Imperia?

Torno quando posso per stare con i miei genitori e la mia famiglia, in genere due volte l’anno. A causa della pandemia lo scorso Natale sono tornata dopo 2 anni che non tornavo. È stata dura. Durante il primo lockdown ho passato circa un mese e mezzo a casa a lavorare facendo analisi dei dati. Dopodichè, sono andata sempre a lavorare, dato che il mio lavoro non si può non fare in laboratorio. Però è stato comunque un periodo un po’ alienante perchè vivevo solo tra casa e lavoro, senza altre interazioni sociali”.

Qual è il suo sogno?

“Continuare a fare quello che sto facendo, con la speranza in futuro di poter pubblicare un articolo altrettanto importante come questo, ma in cui il mio contributo sia principale. Spero un giorno di essere la principale autrice di uno studio che possa essere utile per migliorare la vita delle persone”.

 

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