“Tutte le soddisfazioni che ho ottenuto finora sono state possibili grazie all’appoggio della mia famiglia“. Lo racconta il 39enne imperiese Paolo Pellegrino, manager di “Twist Connubio” di Londra, ristorante vincitore di numerosi riconoscimenti.
Un nuovo traguardo che rende molto orgoglioso il nostro concittadino, il quale lavora ogni giorno duramente per migliorare sempre di più il locale di cui è responsabile.
ImperiaPost lo ha contattato per conoscere la sua storia.
Da Imperia a Londra: il 39enne Paolo Pellegrino manager di uno dei migliori ristoranti di Londra
“Vivo a Londra da 10 anni – racconta Paolo Pellegrino – sono sposato e stiamo aspettando il secondo figlio. Lavoro come manager presso il ristorante “Twist Connubio” a Marylebone. Il mio lavoro consiste nel gestire il ristorante, i ragazzi e far crescere il ristorante in tutti i suoi aspetti”.
Com’è iniziata la sua carriera nel mondo della ristorazione?
“Da giovane ho vissuto a Diano Marina in caserma, mio padre era militare. Ho frequentato la scuola alberghiera di Alassio e, finita la maturità, ho iniziato a lavorare prima come cameriere e gelataio.
Tutto è iniziato quando avevo solo 17 anni. Un mio amico mi aveva detto che cercavano personale in un ristorante stellato a Saint Vincent in Valle d’Aosta, io ho fatto la valigia e sono partito. Da lì, è iniziata la mia avventura nelle cucine, facendo, nel tempo, numerose esperienze in grandi ristoranti in Italia e nel mondo.
All’inizio era molto dura vivere lontano da casa, completamente da solo. Non sapevo fare nulla e ho dovuto imparare tutto da zero, sia nel lavoro sia nella vita quotidiana.
Dopo la prima esperienza ho lavorato nel ristorante 1 stella Michelin in un hotel 5 stelle a Cervinia, poi sono stato 4 anni a “Il Pellicano”, relais chateaux, una catena di alberghi di lusso molto importante”.
A un certo punto c’è stata una svolta?
“Sì. Inizialmente lavoravo come cameriere. Poi un giorno, all’edicola della stazione di Diano Marina, volevo comprare un giornale per il viaggio e cercavo qualcosa sul calcio, essendo un grande tifoso della Juventus. L’edicolante, però, aveva finito tutto e così, costernato, ha pensato di regalarmi una rivista intitolata ‘Il mio vino’. L’ho presa senza pensarci troppo e sul treno l’ho letta tutta, dall’inizio alla fine. Lì è nata la mia passione per il mondo del vino e per la figura del sommelier.
Ho fatto esperienza a Parma per imparare l’inglese da mia zia, mi ha aiutato tantissimo. Altre esperienze che mi hanno insegnato moltissimo sono state quelle a, ristorante Pinchiorri a Firenze per 3 mesi e da Carlo Cracco a Milano.
L’esperienza più bella che ho vissuto in Italia, però, è stata al Ristorante Caino a Montemerano, in provincia di Grosseto, dove sono stato 6 anni. In quel paese non c’era niente, solo questo prestigioso locale da 2 stelle Michelin, la terza cantina più grande d’Italia. Ringrazierò per sempre la famiglia Menichetti perchè lì da loro ho imparato tutto quello che so. Sono andato via solo perché non vedevo il mio futuro a Montemerano”.
Quando è arrivato il momento di Londra?
“Dopo Caino sono tornato a Imperia per rallentare un po’ e ho lavorato per una pizzeria ristorante a Diano Marina. In quel periodo ho conosciuto la mia attuale moglie e insieme abbiamo deciso di andare a Londra. Era il 2012. In realtà inizialmente non ero convinto perchè ero già stato a Londra per un anno al ristorante di Gordon Ramsay, ed era stata un’esperienza intensa ma molto pesante.
Nonostante ciò ho voluto dare una seconda occasione alla capitale inglese, dandomi 2 settimane per trovare lavoro. Ho fatto un colloquio al famoso locale Novikov e ho fatto la prova il giorno stesso come cameriere. Alla fine mi hanno preso come assistente sommelier e sono stato 3 anni da loro. Dopodichè ho fatto diverse esperienze dal ristorante dell’Hilton Hotel ad Hide Park, a “Casa di Stefano”. Nel mentre ho fatto anche un’esperienza a Saint Tropez per motivi professionali, per imparare il più possibile sui vini.
L’esperienza più dura di Londra è stata al due stelle Michelin “Michel Roux” a Westminster, dove ho ricoperto il ruolo di sommelier e wine buyer. È stato bellissimo. Lì ho fatto la mia prima esperienza manageriale che è stata fondamentale per la mia crescita professionale. All’inizio infatti è stata dura mandare avanti il ristorante, ho imparato nel tempo dai miei stessi sbagli. Quando abbiamo vinto il premio come ‘Best Front of House’ (la sala) è stata una grande soddisfazione. La pressione, però, era tanta e a gennaio 2020 ho deciso di andare via con l’obiettivo di trovare un posto dove poter gestire meglio la vita lavorativa e la famiglia, ma li ringrazierò sempre”.
Poi è approdato al “Twist”?
“Dopo ‘Michel Roux’ è scoppiato il Covid e sono stato fermo per un po’. Pensavo di chiudere con l’hospitality, ma poi è arrivata l’offerta come manager al ‘Twist’ con il famoso chef Gonzalo Luzzaraga. Ho deciso di provare e sono felicissimo di questa scelta. Mi piace molto lavorare in questo ristorante. È di alta qualità ma rustico, come piace a me. Mi sono messo subito al lavoro per far crescere il locale e abbiamo già ottenuto molte soddisfazioni e riconoscimenti. Il mio obiettivo è arrivare a prendere un premio importante, il sogno sarebbe entrare nella guida Michelin. È dura, ma niente è impossibile.
Siamo entrati nei migliori 100 ristoranti per Time Out, una guida importante a Londra, abbiamo avuto il premio di Opentable, Dinner choice 2022, dove sono i clienti a votare. Sono premi piccoli ma importanti perchè danno l’idea della direzione che stiamo prendendo”.
Recentemente si parla molto della difficoltà di reperire personale nel mondo dell’hospitality. Qualcuno sostiene sia perchè i giovani non vogliono più fare certi sacrifici, altri che c’è troppo sfruttamento in questo settore. Lei cosa ne pensa?
“L’hospitality non è tutto oro come si pensa. È sempre una guerra, si soffre, ci si sacrifica. Si lavora anche 15 ore al giorno, si mangia in 1 quarto d’ora di pausa, bisogna essere sempre sorridente, sempre disponibile. Le esperienze dure che ho avuto in certe cucine mi hanno formato il carattere. In certi periodi dormivo 3 ore a notte e mangiavo una volta al giorno, ma mi hanno fatto diventare ciò che sono ora.
Adesso questo settore sta attraversando una crisi, manca la forza lavoro. Negli anni 90 i grandi chef prendevano molti giovani per gli stage. Spesso non venivano pagati, ma facevano una grande esperienza. Ora le nuove generazioni sono cambiate, hanno un nuovo modo di vedere la vita e il mondo del lavoro. Non si vive più per lavorare ma si lavora per vivere, e penso sia anche giusto da una parte. Nessuno vuole più lavorare 10/15 ore al giorno per 900 euro. Dall’altra parte, però, penso che la gavetta serva per poter arrivare a fare qualcosa di grande. C’è invece chi preferisce avere un lavoro più tranquillo per avere lo stipendio a fine mese e basta. È questione di scelte.
Quello che mi sento di dire è che i giovani che non si buttano e non fanno esperienza poi ne pagano le conseguenze in termini di mancanza di autonomia, di non riuscire a trovare un lavoro che li soddisfi. Ciò che non deve mancare mai, secondo me, è la passione per quello che si fa. Quando si ha, allora non pesano più i sacrifici.
Il mondo è cambiato e spesso si tende a voler tutto subito. Il mondo corre e bisogna stare al passo. Anche questo settore deve adeguarsi alle nuove esigenze e dare più diritti e agevolazioni ai lavoratori. Lo capisco perchè io mi sono spaccato la schiena, però il lavoro non deve far diventare matti. Bisogna anche pensare alla vita e alle cose importanti, come la famiglia.
C’è stato un periodo in cui lavoravo 17 ore al giorno, ora ho una famiglia e sto prendendo i frutti di quello che ho fatto prima.
Vorrei concludere proprio così: tutte le soddisfazioni che ho ottenuto finora sono state possibile grazie all’appoggio della mia famiglia. Devo tutto a mia mamma, che è sempre venuta a trovarmi in ogni locale in cui ho lavorato, a mio padre che non c’è più, a mio fratello e a mia moglie che mi hanno sempre sostenuto e mi hanno sempre dato una grande mano. Loro sono stati la forza trainante di tutto il mio percorso”.