23 Dicembre 2024 11:45

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Trentennale strage Via D’Amelio: a Bordighera la vedova dell’agente Vito Schifani. “Erano consapevoli di dover morire. Non dimenticate quello che è successo”

In breve: Ospiti anche il Procuratore Capo di Imperia Alberto Lari, il Prefetto Armando Nanei e il Questore Giuseppe Felice Peritore.

Mio marito era sempre pensieroso, non faceva mai progetti. Perché in caserma tutti sapevano come sarebbe finito“. Lo ha raccontato ieri Maria Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, agente della scorta di Giovanni Falcone, morto a Capaci il 23 maggio 1992, in occasione della cerimonia per il trentennale  della strage di Via D’Amelio, in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta, organizzata dal coordinamento provinciale di Libera.

Ospiti anche il Procuratore Capo di Imperia Alberto Lari, il Prefetto Armando Nanei e il Questore Giuseppe Felice Peritore.

Presenti tra il pubblico rappresentanti delle amministrazioni locali, il consigliere regionale del PD Enrico Ioculano, il segretario Cgil Imperia Fulvio Fellegara e la Senatrice di Bordighera Donatella Albano.

A Bordighera Maria Rosaria Costa, vedova di Vito Schifani

Io ero sposata da pochi anni con un agente di scorta, Vito Schifani. Aveva proprio la passione di diventare poliziotto, anche da ragazzino. Ricordo che prima di far parte della scorta del giudice Falcone era un poliziotto dei falchi della Polizia di Stato. Il compito di un falco era quello di rincorrere quelli che io chiamo i disgraziati. Io sapevo già la fine che avrei fatto, perché non ci sono orari, non ci sono giorni liberi, c’è sempre questa consapevolezza di vivere in un qualcosa di ignoto.

Quando mi comunicò che avrebbe fatto parte della scorta del giudice Falcone me lo ricordo benissimo. Già dal 1989 Falcone era nel mirino di Cosa Nostra, che io chiamo Cosa Sporca, perché non è Cosa Nostra, non è Cosa Mia. Mio marito mi disse ‘ricordati che non mi devi aspettare in piedi, perché il giudice Falcone non ha orari’. I ragazzi della scorta non facevano una vita normale. Dovevano stare fermi, immobili, ad aspettare la chiamata del Magistrato. Non c’erano i cellulari come oggi, c’erano i primi telefonini. Ricordo che una volta mi disse ‘stiamo mangiano la pizza sopra un muretto’. Mi emoziono a parlarne. Questa è la loro grandezza, non si tiravano indietro. Non avevano orari, non avevano vita sociale.

Ricordo bene le ore prima che morisse a Capaci. Vito aveva fatto tre turni consecutivi, doveva sostituire un collega e non disse nulla, obbedì. Lui fece la scorta a Falcone e ricordo gli ultimi istanti di quel pranzo, molto veloce. Ricordo ancora mentre scendeva le scale, di corsa, io mi affacciai dal balcone. Dovevano arrivare puntuali, perché quando arriva Falcone, e non lo sapeva nessuno, solo l’ufficio scorte, loro dovevano essere pronti. Vito aveva il sogno di fare l’elicotterista della Polizia di Stato, era un atleta del Cus Palermo, correva i 400 metri. Aveva una vita, non era soltanto un poliziotto. Aveva una famiglia. E’ bello ricordarli, non farli morire così. Vito aveva fatto il concorso per entrare come elicotterista a marzo del ’92 e l’aveva superato. 

E’ stato un dolore, uno strazio. Ricordo che abbracciò nostro figlio, un bambino di 4 mesi. Aveva l’abitudine di abbracciarlo prima di uscire. Lo chiamava Bibi. Il giorno prima di morire gli scattò tantissime foto, come se avesse un presentimento. La notizia della sua morte me la diede un nostro amico. Chiamai la Questura e mi dissero che non sapevano nulla, ma di guardare il telegiornale. Sono scesa in strada e un poliziotto mi disse che era ferito e si trovava all’ospedale. Nessuno però mi diceva nulla. Quando ho incontrato un suo collega con le lacrime al volto ho capito tutto. Sono andata sola verso l’obitorio e anche là non c’era nessuno. Poi incontrai due carabinieri e non mi fecero entrare. Poi ho visto arrivare il giudice Paolo Borsellino, lo chiamai. Mi disse che non potevo entrare. La prima persona che era andata a salutare questi ragazzi era Borsellino. La prima macchina, blindata, dove c’erano gli agenti della scorta, tra cui mio marito, dall’urto venne catapultata nell’altra carreggiata, a 100 metri di distanza. Era tutta accartocciata. I primi a morire furono loro, Vito, Rocco e Antonio. Questi ragazzi erano da ricomporre, per questo non mi fecero entrare.

Poi ebbi un altro incontro con il Capo della Polizia Parisi, con cui non c’era un grande rapporto. Ricordo che dal tavolo dell’obitorio Parisi si avvicinava ai familiari e a me e tirò fuori una busta con dei soldi. Una scena umiliante, non l’accettati. Questo per dirvi l’assenza dello Stato nel ’92. Rividi poi Borsellino alla Camera ardente allestita a Palazzo di Giustizia. Ricordo l’urlo della madri dei poliziotti, non me lo potrò mai dimenticare.

Il funerale fu straziante. Mi ricordo il lancio di monetine verso i politici. Persone che rappresentavano, molte di loro, il marcio della politica. Abbracciai Borsellino, in chiesa, un abbraccio padre-figlia. Borsellino era un signore, era uno di noi. Lui ha pianto i nostri morti, quelli della strage di Capaci. 

In chiesa urla, pianti, una tragedia. Non dovete dimenticare quello che è successo nel ’92 a questi otto agenti di scorsa, questi poveracci, li chiamo così perché erano consapevoli di dover morire. Sapevano che il tritolo era arrivato. Mio marito era sempre pensieroso, non faceva mai progetti. Perché in caserma tutti sapevano come sarebbe finito. 

Al funerale la chiesa era piena di cittadini comuni. Ricordo gli agenti, poi morti nella strage di via d’Amelio, con la fascia nera al braccio. E piangevano tutti. Andiamo a morire per 5 mila lire di straordinario mi dicevano. Questi ragazzi erano consapevoli della loro sorte. Non dimentichiamo che senza le scorte, senza di loro, il giudice se ne può stare a casa da solo. Non può andare a trovare nessuno. Io sono qui stasera per ricordare che chi indossa la divisa, e lo fa con onore, lo fa perché ci crede e deve essere trattato per una persona per bene.

Nei giorni successivi alla morte di mio marito, Paolo Borsellino chiamò Don Cesare, mio cugino, il prete e gli disse che aveva una lettera da consegnarmi, da parte di una signora francese. Borsellino non ci invitò in Procura, ma a casa sua. Mi accolse a casa sua, ci trattava allo stesso modo. Per lui eravamo tutti uguali. Io gli dissi voglio andare via da Palermo, perché Palermo mi fa schifo, la mafia di fa schifo, la gente che non riesce a debellarla mi fa schifo. E lui mi disse, ‘questa terra diventerà bellissima’. E in effetti c’erano segnali dal carcere. Due pentiti avevano iniziato a collaborare dopo la strage di Capaci. Borsellino aveva bisogno di me, della gente, che si stringesse intorno alla Magistratura. La cosa che mi ha fatto capire che dovevo scappare da Palermo è stata la morte di Paolo Borsellino.

Lui andava sempre a trovare la mamma e dove abitata la mamma era una strada piena di autovetture. Loro avevano chiesto la zona rimozione, che non era mai stata fatta. Non ci credevo nelle istituzioni. La mafia andava a braccetto con lo Stato, perché la mafia senza lo Stato non è nessuno. 

Io sono andata via da Palermo perché la gente fa schifo, perchè devono denunciare, non vergognarsi. Quando una cosa non va bene bisogna dirlo, per essere liberi.

Quelli contro Falcone e Borsellino sono stati attacchi allo Stato, alle istituzioni. Non li hanno protetti perché erano scomodi. Quello che ho vissuto è indescrivibile. Ci sono voluti anni per riprendersi. Non ho mai odiato nessuno, infatti mio figlio è un ufficiale della Finanza. Gli ho insegnato a lottare, a credere nella divisa, perché lo Stato in realtà siamo noi”.

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