22 Novembre 2024 21:56

Cerca
Close this search box.

22 Novembre 2024 21:56

Imperia: anoressia. “Dopo più di 20 anni di disturbi alimentari ora aiuto le altre persone”. La storia di Elisa Amelia. “Sono arrivata a pesare 30 chili” / La storia

In breve: "Dopo più di 20 anni di disturbi alimentari ora aiuto le altre persone". La storia di Elisa Amelia

“Ho trasformato le mie sofferenze in resilienza e ora con la mia associazione aiuto le altre persone”. Queste le parole di Elisa Amelia, fondatrice e presidentessa dell’Associazione “Disturbi Comportamento Alimentare” a Ventimiglia, una realtà nata proprio dalla sua esperienza personale, avendo affrontato 25 anni di disturbi alimentari, dall‘anoressia nervosa alla bulimia.

Imperia: anoressia. “Dopo più di 20 anni di disturbi alimentari ora aiuto le altre persone”. La storia di Elisa Amelia

Com’è iniziato il suo disturbo alimentare?

“Mi sono portata dietro il mio disturbo del comportamento alimentare dall’età di 15 anni fino ai 37 anni. Il mio DCA è nato da quello che ora posso definire, grazie alle competenze che ho acquisito nel tempo, come un fraintendimento affettivo. Le mie figure familiari maschili di riferimento, infatti, arrivano a loro volta da un contesto in cui l’affettività non si deve manifestare. Una volta che ho compreso che la non manifestazione affettiva della controparte non significava: ‘non ti voglio’, ma: ‘non sono in grado di comportarmi diversamente’, ho capito che non potevo pretendere qualcosa che non era possibile avere. Questo è stato possibile solamente dopo il percorso che ho iniziato a 37 anni e che mi ha fatto finalmente accettare il limite delle mie figure di riferimento”.

Quali sono stati i suoi disturbi?

“Principalmente l’anoressia nervosa, oltre ad alcune fasi di bulimia. In particolare, vivevo nell’ipercontrollo del cibo e delle emozioni, che in realtà era totale discontrollo. La massima manifestazione era ovviamente il controllo della fame, l’istinto primordiale per eccellenza. Riuscire a controllarla mi faceva sentire forte. Avevo un’iperattività costante, correvo e camminavo almeno 5 ore al giorno. Facevo pensieri al limite del possibile, sfidando me stessa e il mio corpo. Tutta la mia giornata girava intorno a questo.

Una caratteristica tipica delle persone che soffrono di anoressia è eccellere in tutto, proprio perchè nella fase iniziale non vuoi che gli altri se ne accorgano. Se sei brava in tutto ciò che fai le persone intorno a te pensano che non ci siano problemi. Nonostante i miei sforzi, però, in poco tempo è diventato evidente che ci fosse qualcosa che non andava, perchè in 6 mesi ho perso 25 chili.

Sono arrivata a pesare 30 chili. Ho avuto gravi conseguenze fisiche: ad esempio ho dovuto subire un trapianto di ossa alla mandibola perchè quando non si mangia l’organismo prima consuma l’adipe, poi i muscoli e infine le ossa. Mi è venuta l’osteoporosi, quindi anche tutto il resto delle ossa si è ridotto.

Negli anni ho fatto tanti day hospital. L’ultimo ricovero l’ho fatto nel 2015 ed è durato tre mesi, un’esperienza devastante. Un ricovero del genere è un salvavita, a livello fisico. Però, dall’altra parte, sei rinchiusa in un ambiente di totale sofferenza. Quando esci passi da essere assistita 24 al giorno a un incontro una volta o due volte a settimana, senza contare i costi e lo stress”.

Cosa ricorda di quegli anni?

“Cosa ricordo? Dolore. Mi sono resa conto che ho vissuto per anni di rabbia e odio. La mia vendetta era: ‘io morirò di fronte ai vostri occhi e voi sarete impotenti’. Ho riportato molti danni, oltre che emotivamente, anche fisicamente. La rabbia e l’odio erano le mie stampelle, ed è stato difficile cambiare queste emozioni.

All’età di 37 anni c’è stata una svolta. Dopo oltre 20 anni di disturbi alimentari, ho intrapreso un percorso di Comunicazione Umana Interattiva, tramite un’università popolare specializzata, che mi ha permesso di gestire un cambio emotivo per sostituire le emozioni che mi dominavano. È stato molto difficile lasciar andare la rabbia e l’odio e cambiarle con la compassione e la comprensione, ma questo è stato ciò che ha cambiato tutto. 

È stato un percorso lungo e sofferto ma mi sono portata a casa un bel bagaglio, anche la sofferenza mi è stata utile.

Fin dal momento della nascita l’essere umano impara che cambiare è doloroso e nella vita tende a evitare il cambiamento anche se sta male. Questo è deleterio. Quando però ci riesce, si rende conto che è vero che il costo è stato alto, ma i benefici sono infinitamente più grandi“.

Il rapporto con la sua famiglia com’è cambiato?

“Ora, dopo 30 anni di rabbia, ho chiesto scusa alla mia famiglia per tutto il dolore che ho inflitto loro, perchè mi sono resa conto che sono stata cattiva con me stessa e con loro. Avevo timore di ricevere un rifiuto, mentre in realtà ho trovato accoglienza. Mi manca ancora una figura di riferimento della mia famiglia, però confido di riuscire a fare questo passaggio”.

Da qui è nata la sua associazione?

“Sì, ho utilizzato il mio percorso e l’ho messo a disposizione delle altre persone. Ho contattato il mio docente di Comunicazione Umana Interattiva per iniziare a fare formazione a Ventimiglia e abbiamo costituito l’associazione.

L’associazione è nata il 9 marzo 2021, da quel momento abbiamo seguito circa un centinaio di famiglie. Il 2 ottobre 2022 abbiamo organizzato un convegno a Ventimiglia in cui 4 persone hanno testimoniato 20 anni di dolore e come la loro vita è cambiata dopo 1 anno e mezzo di percorso. È stato molto emozionante.

Abbiamo ricevuto tantissime domande da tutta Italia. Non siamo un’alternativa al sistema tradizionale, ma un percorso parallelo. Non facciamo un percorso medico, ma di comunicazione. Ciò che contraddistingue la nostra strada è la presenza costante. Quando mi chiama una persona io creo un team di 3-4 operatori formati e abilitati (con diploma riconosciuto dall’ASI) con cui si sentono a rotazione tutti i giorni telefonicamente. Entriamo nella vita delle persone. Loro raccontano, noi ascoltiamo. Sembra una banalità, ma non lo è.

Un esempio dei nostri metodi? Stabiliamo una parola di emergenza, neutra, e loro sanno che in qualunque momento del giorno o della notte, se si rendono conto che stanno per andare in crisi, possono inviare un messaggio con questa parola a uno degli operatori. La parola serve a dare un cambio di pensiero: da ‘non ce la faccio’ a ‘ce la voglio fare’. Non c’è giudizio, non c’è aspettativa. E funziona. È uno dei tanti sistemi che mettiamo in campo”.

Chi si rivolge a voi?

“Il 95% sono donne, la fascia di età va dai 9 anni ai 65 anni. Lavoriamo tantissimo con le famiglie, cosa che il sistema spesso trascura”.

Quali sono le falle del sistema?

“Quelle fondamentali sono, come ho già detto, il fatto che viene esclusa la famiglia, occupandosi solo del paziente senza dare strumenti ai familiari, e l’assenteismo del post ricovero, dato che non ci sono abbastanza operatori”. 

Come mai è così difficile affrontare questo problema?

“Mancano le basi della comunicazione. Le persone non hanno gli strumenti, non sanno come comportarsi. Ad esempio, ricordo che c’erano dei momenti in cui magari prendevo un chilo e chi mi voleva bene, pensando di aiutarmi, mi diceva: ‘ti vedo meglio’. Una cosa assolutamente da non dire. Ma se nessuno te lo spiega come fai a sapere che frasi del genere sono da evitare? E nessuno mi ha mai spiegato in 20 anni di percorsi che il mio problema era il fraintendimento affettivo”.

Come ha costruito il rapporto con le sue due figlie affrontando tutto questo?

“Anche loro hanno pagato un costo. Dopo aver visto tua madre in premorienza, ti rimane una paura che va lenita e curata costantemente. Il rischio era quello della replica, invece non è successo, sono stata fortunata”.

Come vede il futuro dell’associazione?

Ora siamo circa 40 soci, di cui 3/4 abilitati come operatori volontari per andare in ascolto delle persone. I numeri delle richieste crescono continuamente perciò spero di avere sempre più persone che desiderano diventare operatori. Ad oggi abbiamo in carico circa 60 famiglie. La cosa più difficile per gli operatori è imparare ad essere partecipi ma non coinvolti, perchè la sofferenza con cui si viene in contatto è tanta.

La gioia più grande è quella di vedere le persone riappropriarsi della propria vita e tornare a sorridere”.

Per maggiori informazioni:

Condividi questo articolo: