“Anche laddove si volesse sostenere che in effetti Fedele venne colpito all’esterno, nel luogo isolato, in posizione inginocchiata e prona, non è possibile ravvisare in ragione soltanto di tali modalità di esecuzione del reato che l’omicida avesse agito allo scopo di porre in essere un crimine dettato dal contesto mafioso“. Lo scrive la Corte di Assise d’Appello di Genova nelle motivazioni della sentenza che portato alla riduzione a 13 anni e 10 mesi di carcere della condanna nei confronti di Domenico Pellegrino per l’omicidio, a colpi di pistola, del 60enne Italo francese Joseph Fedele, il cui corpo venne ritrovato il 21 ottobre del 2020, in frazione Calvo, a Ventimiglia.
In primo grado, l’imputato, difeso dall’avvocato Luca Ritzu del Foro di Imperia, era stato condannato a 20 anni di carcere.
Omicidio Fedele, condanna Pellegrino, aggravante mafiosa esclusa in Appello: Ecco le motivazioni
L’appello della difesa
“Avverso la sentenza ha proposto appello l’imputato per il tramite dei propri difensori di fiducia chiedendo:
– l’esclusione dell’aggravante del metodo mafioso perché sarebbe stato valorizzato indebitamente il contesto familiare mafioso di appartenenza dell’imputato e della vittima, sarebbero state mal interpretate le modalità esecutive e di occultamento del corpo;
– la concessione della attenuanti generiche perché l’imputato incensurato si è presentato spontaneamente ai Carabinieri, ha ammesso i fatti rendendo dichiarazioni ampie e articolate, anche successivamente riconfermate e riscontrate.
La Difesa dell’imputato ha chiesto la trattazione orale. All’odierna udienza, svoltasi alla presenza dell’imputato che ha confermato le dichiarazioni rese in precedenza, il Procuratore Generale ha chiesto la conferma della sentenza impugnata; la Difesa delle Parti Civili si è associata, depositando nota spese; i Difensori dell’imputato hanno insistito per l’accoglimento dell’appello.
La Corte accoglie il ricorso
I motivi di impugnazione addotti sono fondati.
1) All’imputato è stato contestato di avere agito “con le modalità tipicamente adottate da appartenenti a sodalizi di ‘ndrangheta (sparando alla vittima un colpo alla parte superiore del cranio e un successivo colpo alla nuca) tali da richiamare alla mente e alla sensibilità del soggetto passivo il comportamento tipico di chi appartiene a un sodalizio ‘ndranghetista“. Si fa dunque riferimento alla percezione da parte di Fedele di essere stato sottoposto ad una vera e propria “esecuzione” con modalità riconducibili con certezza al contesto ‘ndranghetista. La Corte di Cassazlone ha ravvisato l’aggravante prevista dall’art. 416bis c.1 c.p. in riferimento ad un omicidio, perché commesso dall’esecutore materiale, incaricato dalla mafia, presentatosi a viso scoperto al bar ove si trovava la vittima. Costui l’aveva uccisa all’improvviso dinanzi ai numerosi avventori allo scopo di intimidirli ed infatti costoro non aveva non collaborato con le Forze dell’Ordine (Cass. Sez.l n. 38770 del 22/6/22 Rv 283637).
La Suprema Corte ha riconosciuto altresì l’aggravante dell’utilizzo del metodo mafioso laddove il comportamento intimidatorio venga esternato soltanto nei confronti del soggetto passivo, purché “l’azione incriminata, posta in essere evocando la contiguità ad una associazione mafiosa, sia funzionale a creare nella vittima una condizione di assoggettamento, come riflesso del prospettato pericolo di trovarsi a fronteggiare le istanze prevaricatrici di un gruppo criminale mafioso, piuttosto che di un criminale comune” (Cass.Sez .V n. 14867 del 26/1/21 Rv 281027; Sez.II n.39424 del 9/9/19 Rv 277222; Sez.II n.21707 del 17/4/19 Rv 276115).
Va premesso che si ignora la ragione dell’incontro tra PELLEGRINO e Fedele, poiché la tesi esposta dall’imputato non è suscettibile di verifica. Questi ha riferito della conoscenza occasionale di Fedele per la strada in Francia nel maggio 2020, della richiesta di aiuto dell’uomo, della sua proposta di comprargli la sua Mercedes e della sua successiva intenzione di non concludere l’acquisto, ma di chiedere la restituzione dell’anticipo di 5000 euro che gli aveva corrisposto nel mese di luglio. L’imputato ha aggiunto che conobbe Fedele perché gli si avvicinò, sentendolo parlare in dialetto calabrese, gli disse che avevano le stesse origini; seguì un dialogo subito confidenziale tra i due nel corso del quale PELLEGRINO avrebbe informato lo sconosciuto che suo padre era titolare di una impresa edile, ma aveva dovuto interrompere la propria attività perché arrestato. Secondo l’imputato il 22/9/20 scoppiò un alterco, proprio perché non intendeva perfezionare l’acquisto dell’auto; la lite sarebbe degenerata; l’imputato avrebbe disarmato Fedele ed infine lo avrebbe ucciso durante la colluttazione, avvenuta nel furgone. Non si può escludere che i due si fossero incontrati per altro motivo.
In ogni caso non è provato che Fedele, il quale peraltro abitava in Francia, sapesse che PELLEGRINO Domenico fosse imparentato con esponenti della ‘ndrangheta del Ponente Ligure né se questi avesse millantato di essere un sodale.
Unico elemento certo è che PELLEGRINO sparò al capo ed alla nuca della vittima. L’imputato sostiene di averlo fatto all’interno del furgone, dopo aver afferrato la pistola sfuggita a Fedele.
Per quanto la ricostruzione dell’omicidio da parte di PELLEGRINO appaia inverosimile, perché i due si sarebbero trovati in uno spazio troppo angusto per compiere i movimenti che ha descritto, va tenuto conto che sono state rinvenute tracce di sangue nell’abitacolo del veicolo su punti in corrispondenza del posto anteriore del passeggero che non trovano altra spiegazione, dovendosi escludere che tali tracce possano essere state lasciate dal contatto col cadavere.
Non si può quindi negare con assoluta certezza che l’omicidio sia avvenuto nell’abitacolo. Anche laddove si volesse sostenere che in effetti Fedele venne colpito all’esterno, nel luogo isolato, in posizione inginocchiata e prona, non è possibile ravvisare in ragione soltanto di tali modalità di esecuzione del reato che l’omicida avesse agito allo scopo di porre in essere un crimine dettato dal contesto mafioso. Il sovrastamento della vittima da parte dell’assassino non è una modalità del tutto tipica degli omicidi consumati da appartenenti alla criminalità organizzata. In mancanza di altri connotati specifici, l’aggravante contestata non può essere ritenuta.
2) Le attenuanti generiche possono essere accordate, perché l‘imputato è un giovane incensurato ed ha dimostrato rammarico per il gravissimo reato commesso: per quanto tale atteggiamento possa essere stato dettato da ragioni strumentali, è pur vero che rappresenta un gesto di umiltà nei confronti dei parenti della vittima. Ma va soprattutto evidenziato che, pur avendo avuto netto sentore che le indagini si stavano orientando su di lui nel momento in cui seppe del sequestro del furgone, potendo quindi assicurarsi la fuga, magari chiedendo l’appoggio dei familiari, pochi giorni dopo invece si costituì. Accompagnò gli Inquirenti sul luogo del delitto e fornì una ricostruzione dei fatti; non si può peraltro pretendere da un imputato sincerità e collaborazione assoluta, essendo suo diritto tacere e persino mentire.
La pena finale
Il trattamento sanzionatorio deve essere dunque ridimensionato. La pena base pari ad anni 23 di reclusione è corretta perché non può essere pari al minimo di legge, dovendosi considerare le modalità di esecuzione del reato, commesso con freddezza in un luogo isolato, nonché l’atteggiamento tenuto dall’imputato immediatamente dopo la commissione del delitto: riportò in Francia l’autovettura della persona scomparsa, ostacolandone le ricerche. La riduzione per le attenuanti generiche non può essere piena, perché PELLEGRINO cercò di celare la propria responsabilità, pulendo il veicolo dalle tracce di sangue; le ricerche si orientarono su di lui per puro caso, poiché il furgone con il portellone di colore diverso venne riconosciuto in occasione dell’arresto di suo zio.
La pena base viene ridotta ex art. 62 bis c.p. ad anni 20 di reclusione. Inoltre, in considerazione del riconoscimento delle attenuanti generiche, l’aumento a titolo di continuazione viene ridotto a mesi 9 di reclusione. Per effetto del rito celebrato, la pena finale é pari ad anni 13 mesi 10 di reclusione.
L’impugnata sentenza deve essere nel resto confermata con conseguente condanna dell’imputato alla rifusione delle spese sostenute in questo grado del giudizio dalle Parti Civili”.