14 Novembre 2024 02:28

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14 Novembre 2024 02:28

Imperia: l’ex Procuratore Capo di Palermo Caselli su Andreotti. “Mentì sull’omicidio Mattarella e sui suoi rapporti con i mafiosi”

In breve: Nel corso dell'incontro organizzato da Libera in memoria di Rita Atria e di tutte le vittime di mafia, e tenutosi ieri, 25 luglio, a Imperia, in via Del Monastero, ha preso la parola anche l'ex Procuratore Capo di Palermo Gian Carlo Caselli, uno dei magistrati simbolo della lotta alla mafia.

Nel corso dell’incontro organizzato da Libera in memoria di Rita Atria e di tutte le vittime di mafia, e tenutosi ieri, 25 luglio, a Imperia, in via Del Monastero, ha preso la parola anche l’ex Procuratore Capo di Palermo Gian Carlo Caselli, uno dei magistrati simbolo della lotta alla mafia. Caselli si è soffermato sulla figura dell’ex Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, sui suoi rapporti con la criminalità organizzata e sul cosiddetto “Processo del Secolo” che vide Andreotti assolto in primo grado, a Palermo, nel ’99, dall’accusa di concorso esterno in associazionemafiosa, sentenza poi parzialmente riformata in Appello (2003) e Cassazione (2004). I giudici riconobbero i rapporti dell’ex Presidente del Consiglio con Cosa Nostra sino al 1980, ma emisero sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione.

Nel corso della serata il Procuratore della Repubblica Alberto Lari ha ricordato il processo Partanna, che seguì come giudice, al suo primo incarico, in Sicilia, nel ’92, e la figura di Rita Atria. 

Imperia: mafia, le dichiarazioni del Procuratore Lari e dell’ex Procuratore Caselli

“Quando sono arrivato a Marsala, nel ‘92, mi sono occupato, come giudice, del processo Partanna dove la deposizione di Rita Atria ha avuto un’incidenza molto importante. Quando sono arrivato in Sicilia nel ’92, anno delle stragi di Capaci e di via d’Amelio c’era appena stata la sentenza del maxi processo. Prima di allora non c’era mai stata una sentenza che testimoniasse la presenza della mafia a Partanna, piuttosto che a Mazara del Vallo o a Castelvetrano. Per questo le dichiarazioni di Rita Atria, che rivelavano chi fossero i mafiosi in quella città, sono risultate così importanti. Era una minorenne, donna, che parlava di mafia nel ‘92. La prima cosa che facevano emergere i legali difensori era che Rita Atria era una bambina, non aveva la personalità per sapere le cose di cui parlava.

Non era scontato l’esito di quel processo, si basava sulle testimonianze di tre giovani ragazze. In più, dopo una settimana dalla morte di Paolo Borsellino Rita Atria si suicida. A quel punto non era più possibile interrogarla in aula nel processo. Il Tribunale venne chiamato a decidere se ammettere o meno il verbale di interrogatorio di Rita Atria. La difesa si oppose dicendo che non aveva potuto interrogare la testimone in aula.

Ricordo che in quel processo i giudici, me compreso, si trovarono in difficoltà nel resistere alla pressione delle difese. Non era una difesa tecnica, ma un’esasperante campagna di eccezioni per sostenere che il Tribunale era prevenuto.

Nella sentenza scrivemmo che Rita Atria era pienamente attendibile e sottolineammo il coraggio di questa ragazza.

Si era presentata dal giudice Borsellino denunciando per mafia parenti e amici. Perse il papà e il fratello, uccisi. La madre la ripudiò e distrusse la sua lapide dopo  il suicidio.

Da minorenne dovette allontanarsi da tutti gli affetti. La sua testimonianza non fu motivata da alcun interesse personale perché mai emerse che Rita Atria avesse mai fatto qualcosa di male nella sua vita. Fu una sua decisione spontanea. Aveva deciso di rompere con quel mondo.

Un testimone di giustizia non ha nulla da guadagnare, sa che perderà la sua attività lavorativa, gli affetti, gli amici, che si sradicherà dal luogo di provenienza. Che uscirà di casa con la paura. Situazioni complesse che fanno capire perché sono così pochi i testimoni di giustizia. Lo Stato deve considerare il testimone di giustizia come una priorità. Deve impegnarsi a garantire al testimone il massimo dell’esistenza. Lo Stato fa tutto il possibile? Passati i primi anni, lo Stato si è un pò allontanato da queste priorità. E’ sempre più difficile avere fiducia davanti alle istituzioni.

A me è capitato, per reati molto meno gravi, di non trovare persone che facessero la scelta di collaborare. Le persone quando si siedono al tavolo degli inquirenti difficilmente trovano il coraggio di raccontare. Nella nostra regione non ho mai conosciuto un testimone di giustizia in 23 anni.

Lo Stato deve fare di più per sensibilizzare su questo problema. Non è un argomento dibattuto. Non ho mai letto alcuna proposta su questa materia. C’è una sottovalutazione di questo fenomeno”.

Gian Carlo Caselli

Il processo Andreotti fu molto difficile. In primo grado si sapeva delle sue relazioni con Ciancimino padre, con i Salvo, Antonino e Ignazio, e con Michele Sindona. Andreotti ha sempre negato tutto. I giudici del Tribunale, in primo grado, hanno scritto che in effetti Andreotti mentiva, ma che lo faceva per difendere il suo onore. 

Per quanto riguarda i Salvo, Andreotti ha mentito almeno dieci volte. Alla fine venne usata una foto della fotografa Letizia Battaglia, che ritraeva Andreotti con i Salvo e che non aveva mai pubblicato perché la riteneva sfuocata.

I Salvo erano mafiosi. Furono processati e condannati da Giovanni Falcone. Negare la conoscenza dei Salvo era un modo di difendersi. Ma non basta difendersi dicendo di non conoscerli, bisogna dimostrarlo. 

Ciancimino fu responsabile del sacco di Palermo. Passò una notte a firmare 3.500 licenzie edilizie a un carrettiere che neanche conosceva e che era un prestanome, facile capire di chi. I Salvo erano esattori in tutta la Sicilia. 

Sindona era un bancarottiere. Fece uccidere Ambrosoli che non voleva salvare la sua banca. Andreotti dirà di Ambrosoli ‘beh se l’era andata a cercare”. Un poveretto morto in un attentato incendiario. Tutto questo è emerso nel processo.  La foto della Battaglia ebbe un grande peso perché dimostrò che Andreotti aveva incontrato i Salvo a un incontro di partito.

Ma le cose peggiori a carico di Andreotti non sono queste. E’ provato da un testimone (Marino Mannoia) che Andreotti incontrò per ben due volte Stefano Bontade e altri boss per discutere di Piersanti Mattarella. La seconda volta li incontrò dopo che Mattarella era stato ammazzato. Non rivelò mai nulla agli inquirenti pur essendo a conoscenza di elementi rilevanti dell’omicidio Mattarella”.

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