“La nostra antica paura di mescolarsi sarà superata dal dato di fatto che ci renderemo conto che in qualche modo è già accaduto, è inevitabile“. Queste le parole del reporter, giornalista e scrittore Gabriele Del Grande, ieri a Imperia in occasione del suo monologo multimediale “Il secolo è mobile – La storia delle migrazioni in Europa vista dal futuro” al Cinema Centrale di via Cascione.
Del Grande ha lavorato per oltre dieci anni come reporter sul tema delle migrazioni tra Africa e Europa, sulle primavere arabe, sulle guerre in Libia e Siria. Nel 2006 ha creato il primo osservatorio sulle vittime della frontiera, “Fortress Europe”, realizzando numerosi reportage per la stampa italiana e internazionale. È co-regista del film “Io sto con la sposa” (2014) e autore di diversi libri, tra i quali “Il mare di mezzo” (Edizioni Infinito, 2010), “Mamadou va a morire” (Edizioni Infinito, 2007) e “Dawla. La storia dello Stato islamico raccontata dai suoi disertori” (Mondadori, 2018).
Lo spettacolo è stato organizzato dalla Cooperativa Sociale Jobel nell’ambito delle attività del SAI (Sistema Accoglienza e Integrazione) di Imperia e promosso in collaborazione con Cineforum di Imperia e Libreria “Armadilla”, AIFO, Centro Ascolto Caritas di Sanremo, Caritas di Ventimiglia, Arci provinciale Imperia, ConfCooperative Liguria, Circolo ARCI “Il Campo delle Fragole”, Rete Impatto Inclusivo.
Imperia: “Il secolo è mobile”, a tu per tu con il giornalista e scrittore Gabriele Del Grande
Com’è iniziato il suo interesse per il tema delle migrazioni?
“In realtà molto per caso. Ero uno studente squattrinato all’Università di Bologna e finii a vivere con tre coinquilini westafricani che, oltre a insegnarmi il francese, mi incuriosirono sulle culture e sui mondi da cui arrivarono. Poi ho fatto il mio percorso, ho cominciato a scrivere ed è diventato un tema a cui sono molto legato. Dietro a questo lavoro ci sono una decina di anni di lavoro di campo, quindi quel giornalismo che si faceva una volta, andando sui posti, sporcandosi le scarpe, vedendo le cose di prima persona, 10 anni di viaggi in lungo e in largo per il Mediterraneo e l’Africa. A un certo punto si è aggiunto un periodo di studio degli archivi per ricostruire la storia delle immigrazioni in Europa da cui è nato prima il libro e poi lo spettacolo che portiamo oggi qua a Imperia”.
Il concetto del libro e di questo spettacolo parte un po’ dalla riflessione che 100 anni fa non c’erano ancora i passaporti e adesso ci ritroviamo 100 anni dopo con 50.000 persone morte nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere la costa dell’Europa per trovare una salvezza, una vita migliore. Adesso in un minuto sarà difficile riassumere tutto, ma quali sono state le tappe che hanno portato all’evolversi di questa situazione?
“Ognuno in famiglia ha un antenato che se ne andò in America. Nella mia famiglia il nonno di mio nonno Daniele nel 1908 sbarcò a Ellis Island come altri 5 milioni di italiani che entrarono tutti senza documenti. Quella era un’epoca in cui si viaggiava senza passaporti, senza lasciapassare semplicemente perché erano così tante le persone che si stavano muovendo e i passaporti che esistevano anticamente in Europa erano caduti in disuso. Oggi ci troviamo in una situazione molto diversa e molto anche differenziata perché in realtà i divieti di viaggio valgono soltanto per alcune categorie di viaggiatori. L’Europa è passata dagli anni del boom economico, il trentennio del miracolo economico del dopoguerra. Erano anni in cui servivano braccia per il lavoro, c’era la guerra fredda, la cortina di ferro, non si potevano fare arrivare lavoratori dai Paesi socialisti dell’est, non bastavano i nostri migranti del Sud Europa in Germania, in Francia, in Inghilterra e allora quegli ex imperi coloniali fecero arrivare in massa braccia dall’Africa, dall’Asia, dall’India, dai Caraibi. Come disse lo scrittore svizzero Max Frisch: “Volevamo le braccia, arrivarono le persone”. Una società che ancora viveva della menzogna del suprematismo bianco, il colonialismo era appena finito, non era facile abituarsi all’idea di mescolarsi e convivere con gente arrivata da così lontano. Una volta che è caduto il muro di Berlino, mentre si apriva il corridoio con l’est Europa, avviando la libera circolazione, l’Albania, i Balcani, l’est Europa. Quando è scoppiata la guerra in Ucraina sono arrivate 4 milioni di persone senza visto, semplicemente perché avevamo stabilito la libertà di movimento con l’Ucraina 5 anni prima del conflitto. Mentre si faceva questa apertura a est, si è invece chiusa sempre di più la porta con l’Africa e con l’Asia. Io provo a raccontare in questo spettacolo come gli sbarchi, il fenomeno del contrabbando in mare, sono la diretta conseguenza di queste politiche di proibizionismo. C’è una data d’inizio, un anno zero degli sbarchi: 1991, il momento in cui si sono vietati per legge i viaggi dei poveri dall’altra riva del Mediterraneo. Quei viaggi sono stati iniziati a essere venduti al mercato nero. Io provo a ricostruire questo discorso storico, ma poi la parte finale del lavoro è tutta proiettata sul futuro per cercare di capire come uscirne. Di fronte a quei 50.000 morti, testimoniare è fin troppo comodo, bisogna chiedere come se ne esce, qual è l’alternativa, perché l’alternativa esiste”.
C’è una possibilità quindi di uscirne? Lei è ottimista su questo punto? Come si fa?
“Sono preoccupato nel brevissimo termine, visto i discorsi che ancora si producono su questi temi, quanto sono convintamente ottimista sul futuro. Questa nostra antica paura di mescolarsi sarà superata dal dato di fatto che ci renderemo conto che in qualche modo è già accaduto, è inevitabile. Basta guardare i numeri: oggi in Europa vivono da cittadini europei discendenti di 35 milioni di persone arrivate dalle ex colonie, sono quasi il 10% della popolazione e saranno sempre di più in prospettiva, visto l’andamento demografico dell’Europa. Arriverà un giorno in cui ogni famiglia avrà un pezzettino di casa in Marocco, in India o in Nigeria, sarà il momento in cui saremo pronti a fare quello che abbiamo già fatto con l’est e con il Sud America, ovvero liberalizzare i visti e fare in modo che non siano più gli stati a decidere chi entra e chi esce, ma sia il mercato del lavoro con le reali opportunità, consentendo alle persone di viaggiare in modo legale e di organizzarsi in autonomia. Questo accade già adesso: più del 70% dell’immigrazione che abbiamo non passa dall’accoglienza, dall’asilo, dagli sbarchi, passa in modo totalmente autogestito dai corridoi dell’est Europa, dell’America Latina. Non si capisce perché non si possa fare lo stesso con l’immigrazione afro-asiatica. O meglio, si capisce: sono i fantasmi del vecchio razzismo scientifico, ma sono fantasmi fuori tempo massimo”.