Lungi da me paragonarmi a loro, che hanno carriere di tutto rispetto, piuttosto dico la mia, in virtù di una cosa che abbiamo in comune, il Premio Parasio, che a suo tempo ricevette anche mio padre, proprio perché tutti ci siamo distinti nel nostro mestiere sul panorama nazionale ed internazionale, portando “in alto” il nome della nostra città.
Cari Stefano e Settimio, vogliamo parlare del Teatro? Io sono cresciuto letteralmente al Cavour, dato che mio padre ne è stato ripetutamente direttore, costituendone una vera e propria rinascita, contribuendo così vivamente al fermento culturale della nostra città, arrivando addirittura a concentrare, in uno spettacolo su Giovanni Boine su testo originale di Beppe Conte, (altro grande artista imperiese) la forza di essere di Imperia.
Nel corso degli anni il teatro, stritolato nel meccanismo delle gare di appalto, ha visto perdere sempre più identità, pubblico e qualità. La gestione esterna, unita alla sempre maggiore riduzione di risorse, la rigidità dei meccanismi burocratici comunali e spesso una gestione dei rapporti a dir poco inefficiente, quando non ostile, a qualsivoglia iniziativa, da parte degli uffici competenti hanno ridotto sempre più la funzione del teatro di città, portandolo ad essere un contenitore di titoli senza alcun PROGETTO CULTURALE.
Recentemente, la presente amministrazione ha cambiato dirigente dell’ufficio cultura, portando lo staff dirigenziale ex – ecologia, negli uffici del ridotto del Teatro di città.
Aldilà della facile ironia, che risulta piuttosto amara, dato che il medesimo staff è quello che ha portato in città la TRADECO, pagina non proprio felice della storia contemporanea, quest’anno l’ufficio ha deciso di non praticare la gara di appalto per la gestione del teatro, ma di risolverla internamente.
D’altra parte, un ufficio che conta, mi dicono, ben 12 dipendenti e che costa alla pubblica amministrazione circa 400.000 euro l’anno, potrà ben gestire una stagione teatrale ed una struttura che ospita 12 date!
Ad ogni buon conto, quando seppi di questa inversione di tendenza, offrii la mia collaborazione, non per presunzione, ma dato che il teatro è il mio mestiere, ritenni di mettermi al servizio della mia città, proprio per fornire contatti e competenze specifiche che arrivai ad offrire anche gratuitamente!
Purtroppo la mia offerta cadde nel nulla, così come la disponibilità dell’amico Sergio Maifredi, direttore del Festival Grock, nonché uomo di teatro di livello internazionale, che più volte ha tentato di fare un investimento culturale sulla nostra città.
L’altro giorno, per caso, visto che cerco di evitare di passarci davanti (pur abitando in via Cascione) per quanto mi fa male vedere un così bel teatro abbandonato allo sfacelo, mi sono fermato ad osservare la struttura.
Vetri sporchi, bacheche mezzo diroccate, luci spente, ed in un angolo, sull’espositore dei manifesti per la programmazione, un misero pieghevole di sala aperto, sotto cui era stato applicato un foglio stampato male con qualche indicazione su ora e data, (in tutto due fogli A4) allego la foto perché si possa capire ciò di cui sto parlando.
La stagione di prosa, conta 3 o 4 titoli di nessun rilievo, tranne l’amico Dighero che in un MONOLOGO sul mistero buffo (suo cavallo di battaglia dagli anni ’80) chiude la stagione.
Qualche titolo di opera, operetta ed un concerto del maestro Ughi, sono organizzati interamente o quasi, da un’associazione locale che rischia in proprio.
L’ultima volta che sono entrato in teatro, per il premio Grock, ricordo che fui colpito dall’odore di muffa, di polvere ed aggiungo di morte.
È evidente che la cultura in città non goda di alcun interesse, come le manifestazioni in generale, facendo sì che qualsiasi realtà amatoriale superi di gran lunga il totalmente assente progetto culturale di Imperia.
Difficile aggiungere altro allo sconforto ed amarezza che queste considerazioni recano con sé, chiudo con una frase di Italo Calvino, autore molto caro a mio padre, ligure anche lui, che forse in questo breve dialogo tratto da Le città invisibili immaginava di parlare della nostra terra.
Nella vita degli imperatori c’è un momento disperato in cui si scopre che questo impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita perché il nostro scettro possa mettervi riparo:
– Già ti dissi, mio signore, di Diomira, città con sessanta cupole d’argento, e della città di Isidora, dove si arriva in tarda età, o di Ottavia, città ragnatela, di Fillide, che si sottrae agli sguardi, tranne che se la cogli di sorpresa.
– Come ti ho detto di Raissa, città infelice che contiene una città felice che nemmeno sa di esistere.
E se parlasse di noi?
Antonio Carli